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mercoledì 26 aprile 2017

Le regole di Bill Gates: niente cellulare prima dei 14 anni e vietato telefonare a tavola

Bill Gates è uno degli uomini più ricchi del mondo, per svariati anni il più ricco. Però sotto questa dura scorza coperta da milioni di dollari si nasconde un padre che vuole dare delle regole ben precise ai propri figli.
Bill e Melinda hanno tre figli: Jennifer Katharine (nata nel 1996), Rory John (1999) e Phoebe Adele (2002). Tutti e tre hanno ora un cellulare, ma fino a 14 anni non è stato loro permesso di possederne uno. “Non abbiamo mai voluto che accedessero a ciò prima dei 14 anni, anche se si lamentavano di non essere “al passo” con i loro compagni di scuola e con gli amici“: ecco le parole di Bill al Mirror.
L’uso della tecnologia a casa Gates è limitatissimo, nonostante quella stessa casa sia stata costruita grazie alla crescita dell’impero informatico Microsoft. “Abbiamo fissato un orario preciso oltre il quale vanno spenti telefoni, televisori e computer. Quando erano più piccoli questa regola li aiutava anche ad andare a dormire a un’ora ragionevole. Inoltre non portiamo mai i cellulari a tavola: disturbano momenti importanti per la famiglia come lo sono i pasti“.
Se la famiglia Gates, per la sua straordinaria specificità (sia per il livello di benessere sia per il lavoro di Bill), sembra una mosca bianca, ecco una conferma indiretta. In un’intervista al New York Times il compianto Steve Jobs, fondatore di Apple, aveva dichiarato di limitare l’uso della tecnologia in casa sua. A questo punto la conclusione ovvia è che chi conosce a fondo i lati negativi della tecnologia ha anche gli strumenti necessari per limitarne i danni – almeno per i propri familiari.
Non è la prima volta che Bill Gates rilascia dichiarazioni non convenzionali riguardo alla propria famiglia. Recentemente aveva spiegato che i suoi figli non erediteranno tutta la sua fortuna: il totale (da dividere per tre ovviamente) non sarà superiore ai due terzi. Buona parte della loro eredità sarà infatti destinata a enti caritatevoli per l’infanzia, l’educazione scolastica e sessuale nei paesi in via di sviluppo. Questo sforzo è appaiato a quello della fondazione dei genitori, la già celebre Gates Foundation.

giovedì 11 ottobre 2012

Generazione watchdogger: identikit della rete che denuncia e 10 link da cliccare

Oggi la rete consente anche ad un territorio piagato dagli incendi abusivi – oltre trenta roghi al giorno – di mappare le sue aree critiche, di informare i cittadini, di prevenire possibili disastri ambientali.
Angelo Ferrillo, trentacinquenne ricercatore e videomaker per passione, è l’anima di Laterradeifuochi.it. Grazie alla sua piattaforma di geolocalizzione creata in casa, ha messo in rete il dramma che si consuma in Campania: quello dei roghi tossici di rifiuti speciali, espressione delle nuove eco-mafie.
Cinque anni fa ha deciso di imbracciare una telecamera e di denuciare questa pratica criminale che si registra nell’hinterland napoletano e che, talvolta, si spinge fino a Caserta e Benevento. «Qui c’è una terra che brucia ogni giorno tra l’indifferenza dei media ed uno Stato che non detiene il controllo del territorio. Con Laterradeifuochi.it abbiamo documentato anche venti roghi contemporanei. Mi sono avvicinato alla rete per esasperazione, per far conoscere questo dramma», così mi ha raccontato Ferrillo.
Angelo e quelli come lui. Coraggiosi, altruisti, digitalizzati, armati di telecamere semiprofessionali, talvolta anche di microcamere nascoste (oggi più a buon mercato). Informano su ciò che accade sottocasa, denunciano ciò che non va, creano un filodiretto tra cittadini, oggi users, e le amministrazioni locali. Mettono in rete forum tematici e community per scambi di pareri o per intraprendere azioni anche collettive. E pazienza se le class action da noi non hanno risvolti legali come Oltreoceano. L’Italia dell’emergenza continua. che non merita più neanche uno spazio nelle brevi dei giornali, è quella che ogni giorno continua a darsi appuntamento in rete.
La nuova ricerca Watchdog 2012 – quinto rapporto promosso dall’osservatorio e network Altratv.tv – fotografa una situazione in chiaroscuro. “Watchdog” sta a significare “cane da guardia” e afferisce al giornalismo anglosassone legato alle inchieste realizzate dai giornalisti “cani da guardia” del potere, soprattutto politico. La ricerca ha interrogato 642 web tv e 815 testate digitali mappate da Altratv.tv, registrando un tasso di risposta del 66%.
Si professionalizza maggiormente la filiera digitale dei watchdogger e si registra di fatto una maggiore collaborazione con le PA locali (e sempre più cinguettanti). Ma gli investimenti sono ancora troppo contenuti, e il più delle volte affidati all’autofinanziamento dei fondatori. Quello della sostenibilità è un aspetto che rallenta e di molto la moltiplicazione di questi watchdogger, spesso impegnati a sbarcare il lunario piuttosto che a monitorare inchieste effettuate o da documentare. Solo il 22% delle “antenne” ottiene incentivi dal pubblico, il 12% riesce ad avere finanziamenti europei e uno scarsissimo 8% ha rapporti economici con privati: questo dato sconfontante significa che le aziende del territorio non investono sui media digitali locali.
A fare la parte del leone è ancora la formula dell’autofinanziamento (vale per il 60% dei casi analizzati), che si esplicita attraverso sottoscrizioni, donazioni o operazioni in crowdfunding. A fare inchiesta prevalgono ancora le antenne territoriali (88%) rispetto alle community o ai forum tematici (12%). Spesso le iniziative digitali nascono per volontà di cittadini (45%) o di istituzioni pubbliche (15%), ma crescono anche le esperienze di associazioni, aziende e gruppi di interesse (40%).
Migliora (seppur di poco) il rapporto con la PA locale: nonostante il 47% delle antenne percepisca “indifferenza”, per il 33% dei casi c’è “collaborazione”, mentre un 14% lamenta forme di “boicottaggio” più o meno evidenti (nel 2011 il dato era fermo all’8%) e solo un timido 6% registra un sostentamento economico.
Quasi una antenna su tre dedica più della metà della programmazione alle denunce, ma le redazioni di web tv e testate digitali non sono ancora mature per formule di specializzazione interna.
E così, nel 64% dei casi, per le inchieste non ci sono in redazione figure specifiche. Tuttavia aumenta la capacità di presidiare l’oggetto della denuncia: l’82% segue sempre o quasi sempre l’evolversi dei fatti (il noto “come è andata a finire?” a cui Report ci ha alfabetizzato): tra le notizie maggiormente monitorate ci sono la politica (52%), l’ambiente (42%), il lavoro (30%), la salute (28%).
Se quasi la totalità delle antenne adotta telecamere digitali semi-pro o professionali (88%) e si registra un incremento delle microcamere nascoste (21%), rilsulta ancora scarsa  la possibilità di inserire contributi video di denuncia autoprodotti dai cittadini-users. Solo il 42% delle piattaforme lo consente, a fronte di un 58% che non offre questa opportunità. Denunce prevalentemente social: video e notizie vengono postati anche su Facebook (91%), Twitter (84%) o altri social network (6%). Si incrementa il numero di antenne che si posizionano su piattaforme di videosharing: l’88% carica video su YouTube.
Dicevamo in testa al post di Angelo e di quelli come lui. Ce ne sono centinaia, ma vi segnalo dieci storie di straordinaria programmazione. In Sicilia c’è Pino Maniaci, artefice di Telejato.it, prima tv di comunità antimafia, oggi anche in rete. A Podenone c’è Francesco Vanin che, con la sua “restaurant-tv” (prima in Europa) Pnbox, offre un microfono aperto permanente ai suoi concittadini. A Bari c’è una giovanissimo team che ha acceso una web tv creando uno specifico format settimanale (trasmesso al lunedì) con il primo cittadino Michele Emiliano. Direttamente da casa e per diversi mesi, Emiliano ha risposto ai messaggi su Facebook rimbalzando in diretta sulla web tv Baritv.tv.
Da Nord a Sud, fortunatamente, i watchdogger si moltiplicano: in Emilia presidiano la ricostruzione post-terremoto tanti videomaker che postano aggiornamenti anche sulla nota piattaforma YouReporter. In Basilicata la web tv Ola Channel denuncia gli scempi ambientali, in una terra ricca di petrolio e povera di lavoro. Dalle regioni fino ai singoli quartieri, così la lente di ingradimento mette a fuoco le magagne del Paese (e dei paesi). A Firenze c’è il videoblog di Via del Pesciolino, creato dai condomini del complesso di via Del Pesciolino, situato in un quartiere difficile ma digitalizzato.
Nel sud-Italia il portale Incompiuto Siciliano ha mappato tutte le opere incompiute, geolocalizzandole e in qualche modo archiviandole. È partito da Giarre, terra regina dell’incompiuto, e oggi va oltre i confini isolani. Attecchiscono in rete community e forum tematici. A Pistoia c’è il blog Genitori di Pistoia, che denuncia il caro-mensa dei nidi della città: dal blog collettivo è nato “lo sciopero del panino” contro le nuove tariffe.
Dai genitori ai ricercatori. Il forum di denuncia su Facebook è nato tre anni fa e si chiama Secs in the cities: è dedicato alle denunce di ricercatori e cerca di contrastare concorsi truccati e pratica baronali ancora estremamente diffuse. E c’è anche chi si occupa di evasione fiscale: Evasori.info aggrega migliaia di segnalazioni per milioni di euro evasi. Il sito di denuncia nasce da un informatico italiano che resta sotto anonimato. Anche le denunce sono anonime, ma significative: si possono segnalare categoria di appartenenza dell’evasore, cifra evasa e area geografica di riferimento.
I watchdogger italiani presidiano il territorio laddove anche tv e giornali locali sono scomparsi, e accendono un microfono, che spesso diventa megafono. Anni addietro a Reggio Emilia nacque proprio Telecitofono: un videobox al posto del videocitofono, e i cittadni che lasciavano messaggi. Denunce e segnalazioni portate poi all’attenzione dell’amministrazioone comunale. Ecco: se la rete dei watchdogger ha un merito è  sicuramente quello di personalizzare strumenti digitali, plasmandoli alle necessità di una comunità assetata di risposte e di giustizia. Chiamatelo, se volete, servizio pubblico. Anche se non lo trovate sui tasti del telecomando.

lunedì 16 aprile 2012

Digital divide all’italiana. 4 su 10 non si sono mai connessi



Si continua a parlare di Internet, qualcuno lo trasforma in diritto e lo mette anche in Costituzione (Islanda), tutti si riempiono la bocca con l’equazione +internet=+democrazia e più libertà (chiedete a Twitter e alla sua disponibilità alla censura cinese se questo significhi libertà e democrazia)
 in Italia il Governo lancia in grande stile la Pubblica amministrazione online. Tutto bello, tutto perfetto ma, tralasciando le questioni sulla libertà e sui diritti, e concentrandosi solo sulla questione italiana, la domanda sorge spontanea: che senso ha spostare i documenti della pubblica amministrazione online se, in Italia, sono meno quelli che Internet la usano di quelli che, per vari motivi, non sanno più o meno neanche cosa sia? A che servono 7 mln di documenti della PA on line se 4 famiglie su 10 non hanno internet e il 39% tra 16 e 74 anni non si è mai collegata?
Il digital divide nel nostro Paese è un problema serio, che affonda le sue radici in ritardi infrastrutturali (la tanto sospirata banda larga) e culturali. E’ un problema talmente tanto serio che il rischio vero è quello di creare cittdini di serie A, connessi e quindi comodamente seduti a casa propria, e cittadini di serie B, disconnessi e pazientemente in fila negli uffici.  E’ un problema solo di tipo civile? Riguarda la sfera della pubblica amministrazione e della buona gestione della cosa pubblica? No, non direi. Avere una fetta maggioritaria di popolazione che Internet non la mastica è un problema ben più ampio. Investe le aziende, che non riescono a cogliere le opportunità che il Web offre loro, investe i comunicatori, gli uomini marketing, tutto il mondo che del web sta facendo business, che, alla fine, si ritrova ad aver a che fare sempre con la stessa platea di abitanti della Rete. Platea che non cresce, anzi. Ampliare l’accesso alla Rete, investire finalmente in banda larga e in informatizzazione non solo della PA ma anche delle famiglie, vorrebbe dire anche, e soprattutto, fare una grande operazione culturale per questo Paese. Abituare le persone ad avere un rapporto online con la PA significherebbe educarle all’uso dello strumento tout-court. Volete che poi, una volta capito come funziona e, soprattutto, avendo banda a disposizione a costi ragionevoli, quegli stessi utenti sulla Rete non ci restino, magari per navigare, leggere, informarsi e comprare?
Nel frattempo l’articolo di Massimo Sideri sul Corriere, oggi, è davvero illuminante e, se permettete, allarmante.
L’accesso impossibile a Internet per quattro famiglie su dieci
Il 39% della popolazione tra i 16 e 74 anni non si è mai collegata al Web. In Inghilterra solo il 10%
Lo stato di salute del rapporto tra noi cittadini e la pubblica amministrazione è ricco di statistiche e alcune sono sorprendenti. La transizione verso il digitale in Italia è al palo? Tutt’altro. Se si va a prendere la percentuale di servizi pubblici di base interamente disponibili online – la fonte è la Commissione europea – l’Italia raggiunge il 100%, saldamente davanti alla Germania (90,9), Francia (83,3) e Unione Europea a 27 (80,9). Anche la tanto osannata Finlandia è ora sotto di noi. La crescita è stata esponenziale. Solo a metà del 2009 eravamo al 55,6% e dovevamo guardare in alto per subire l’ironia degli altri Paesi europei. Per inciso, è interessante osservare che anche la Spagna ha subito un’accelerazione fermandosi però al 91,7%. Dovendo riconoscere a Cesare quel che è di Cesare quella curva esponenziale ha un nome: Renato Brunetta, il ministro della Pubblica amministrazione del governo Berlusconi. Il suo progetto di digitalizzazione della Pubblica amministrazione ha ottenuto dei risultati che sulla carta sono ottimi. Ora il decreto legge sulle Semplificazioni, nel capitolo in cui implementa la cosiddetta Agenda digitale, ha dato un’ulteriore spinta a questo processo con 7 milioni di documenti e certificati che verranno forniti «solo» online. È la prima fase di quella che Stefano Parisi, alla guida della neonata Confindustria digitale, ha definito sul Corriere come switch off dello stato analogico. Una strategia condivisibile anche per Francesco Sacco dell’Università Bocconi che, insieme a Stefano Quintarelli, è stato uno dei promotori del manifesto per l’Agenda digitale in Italia.
Ma allora la domanda spontanea è: come mai l’ e-government italiano non fa scuola? Se ci si sposta sulla percentuale di cittadini che negli ultimi 3 mesi ha inviato o ricevuto un documento della pubblica amministrazione online si scopre che rifiniamo in fondo alla classifica: 10,7% contro il 19,3 dell’Unione, il 21,2 della Francia e il 32,3 della Finlandia. Addirittura tra il 2008 e il 2010 siamo peggiorati di quasi due punti percentuali. Nel 2006 eravamo al 13,7%. Da una parte una crescita esponenziale, dall’altra un trend negativo: il nodo da sciogliere inizia a intravedersi. E per definirne meglio i contorni vale la pena di incrociare i numeri della Commissione con i dati Eurostat del dicembre 2011 sulle case con un accesso a Internet: 62% in Italia, contro l’83 della Germania, il 76 della Francia, l’85 della Gran Bretagna, l’84 della Finlandia e il 91 della Svezia. In soldoni: 4 famiglie su dieci in Italia non hanno fisicamente la possibilità di collegarsi al web tramite rete fissa. Peggio: il 39% della popolazione tra i 16 e i 74 anni non si è mai collegata alla rete né fissa né mobile. Solo un inglese su dieci non ha mai sperimentato una pagina web in qualunque sua forma. Siamo degli emarginati digitali. E questi due ultimi dati ci dicono che un po’ è analfabetismo e un bel po’ assenza di infrastrutture. In Italia è come se avessimo costruito tutti i caselli ma non ci fosse ancora l’autostrada (e, anzi, talvolta si spaccia per autostrada una semplice statale).

Fonte: Online Media Relations - Autore: Daniele Chieffi