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domenica 26 marzo 2017

Adolescenti iperconnessi. Like addiction, Vamping e Challenge sono le nuove patologie

Smartphone e internet: qual è l’impatto nella vita dei ragazzi?

Il 98% dei ragazzi tra i 14 e i 19 anni possiede uno smartphone personale a partire dai 10 anni d’età. Più i ragazzi sono piccoli, più hanno avuto precocemente tra le mani i vari strumenti tecnologici.
Il dato rilevante è che oltre 3 adolescenti su 10 hanno avuto modo di utilizzare uno smartphone direttamente nella primissima infanzia, già a partire da 1 anno e mezzo/2, con la possibilità anche di accedere liberamente ad internet e alle applicazioni presenti nel telefono. Il genitore si sente tranquillo se il figlio utilizza il proprio cellulare pensando che non usi tutte le sue funzioni o vada su Internet dimenticandosi che è tutto collegato alla rete, anche le chat. Con il trascorrere degli anni e l’evolversi della tecnologia si abbassa quindi vertiginosamente l’età di utilizzo. Tra i ragazzi della fascia tra gli 11 e i 13 anni, infatti, l’età media è scesa di un anno sia per quanto riguarda l’uso del primo cellulare, l’accesso a internet e l’apertura del primo profilo social, che si aggira intorno ai 9 anni.
Gli adolescenti quindi sono sempre più iperconnessi, circa 5 su 10 dichiarano di trascorrere dalle 3 alle 6 ore extrascolastiche con lo smartphone in mano, il 16% dalle 7 alle 10 ore, mentre il 10% supera abbondantemente la soglia delle 10 ore. Se calcoliamo che il 63% lo utilizza anche a scuola durante le lezioni, significa che la maggior parte di loro vive connesso alla rete.
Le ore trascorse davanti ad uno schermo si abbassano leggermente nel campione dagli 11 ai 13 anni, forse perché c’è più controllo da parte dei genitori e l’importanza della rete social non è ancora la più rilevante. Il 55% dei preadolescenti lo utilizza per un massimo di 2 ore, il 35% dalle 3 alle 6 ore, il 7% dalle 7 alle 10 ore e il 4% supera le 10 ore, e solo il 13% lo usa durante l’orario scolastico, rispetto al 63% dei ragazzi più grandi che non si possono staccare dal cellulare.
Il 95% degli adolescenti ha almeno un profilo sui social network, contro il 77% dei preadolescenti. Il primo è stato aperto intorno ai 12 anni e la maggior parte di loro arriva a gestire in parallelo 5-6 profili, insieme a 2-3 app di messaggistica istantanea. Il 69% ha un profilo su Facebook, il 67% Instagram, il 66% YouTube, il 47% Snapchat, il 22% Ask, il 16% Twitter, e il 15% Tumblr. Il fatto di avere una serie di applicazioni social sconosciute ai genitori gli permette di essere meno controllati e più sicuri di poter anche osare, favorendo comportamenti come il sextingcyberbullismo e diffusione di materiale privato in rete.
Uno dei dati più allarmanti è che il 14% degli adolescenti ha anche un profilo finto, che nessuno conosce o che conoscono solo in pochi, risultando quindi non controllabile dai genitori e nel contempo facile preda della rete del grooming (adescamento di minori online), dato in rilevante aumento rispetto all’11% dello scorso anno.

Whatsapp: la chat insostituibile

I ragazzi trascorrono la maggior parte del loro tempo sulle chat, 6 adolescenti su 10 dichiarano di non poter più fare a meno di WhatsApp, confermandosi l’app più amata tra gli adolescenti visto che il 99% lo utilizza ogni giorno, il 93% si scambia i compiti attraverso il gruppo-classe e il 70% chatta in maniera compulsiva. Per quanto riguarda i preadolescenti, invece, il 96% utilizza WhatsApp, di cui la metà per chattare in maniera sistematica e ripetitiva, l’82% ha il gruppo-classe per scambiarsi i compiti mentre il 40% per condividere i selfie con gli amici.

Le notti insonni degli adolescenti vampiri tra social network e chat: il fenomeno del Vamping

Il Vamping, ossia la moda degli adolescenti di trascorrere numerose ore notturne sui social media, sembra diventata una vera e propria abitudine, tanto che 6 adolescenti su 10 dichiarano di rimanere spesso svegli fino all’alba a chattare, parlare e giocare con gli amici o con la/il fidanzata/o, rispetto ai 4 su 10 nella fascia dei preadolescenti.
La tendenza, invece che accomuna tutti i ragazzi è di tenere a portata di mano il telefono quasi tutto il giorno, notte compresa, fino al 15% che si sveglia quasi tutte le notti per leggere le notifiche e i messaggi che gli arrivano per non essere tagliati fuori, altra patologia emergente legata all’abuso dello smartphone (FOMO – Fear of Missing Out). Questi comportamenti vanno ad influenzare negativamente la qualità e la quantità del sonno, con conseguenze nocive per l’organismo e vanno ad interferire sulle attività quotidiane dei ragazzi, fino a determinare importanti difficoltà di concentrazione e di attenzione che gravano sul rendimento scolastico, favoriscono l’insorgenza di stati ansiosi, intaccando  l’umore e gli impulsi.

Adolescenti alla continua ricerca di approvazione: la likemania e la followermania

Ormai da alcuni anni sembra che si sia completamente annullato il concetto di intimità, infatti per circa 5 adolescenti su 10 è normale condividere tutto quello che fanno, comprese foto personali e private, mettendo tutto in vetrina, sottoponendolo alla severa valutazione della macchina dei “mi piace” o dei “non mi piace”. Infatti, per oltre 3 adolescenti su 10 è importante il numero dei like ricevuti: tanti like e tante approvazioni accrescono l’autostima, la popolarità e quindi la sicurezza personale. Ovviamente, vale anche il contrario, ovvero commenti dispregiativi e pochi like condizionano l’umore e l’autostima in negativo, tanto che il 34% ci rimane molto male e si arrabbia quando non si sente apprezzato.

Adolescenti terrorizzati che si possa scaricare il cellulare: la Nomofobia

La Nomofobia, da No-mobile-phone, è la nuova fobia legata all’eccessiva paura/terrore di rimanere senza telefono o senza connessione ad internet o al 4G: quasi 8 adolescenti su 10 hanno paura che si scarichi il cellulare o che non gli prenda quando sono fuori casa (un dato in forte crescita se si pensa che fino allo scorso anno interessava il 64% degli adolescenti) e tale condizione, nel 46% dei casi genera ansia, rabbia e fastidio.
Questo fenomeno è meno diffuso tra i più piccoli che si fermano ancora al 60% e solo il 32% sperimenta alti livelli di ansia e preoccupazione.

Il bisogno di apparire ad ogni costo

L’aspetto che caratterizza gli adolescenti di oggi sono i selfie, i famosi autoscatti, dove si è disposti a tutto pur di ottenere like, ad esempio il 13% ha seguito addirittura una dieta per piacersi di più nei selfie. È indubbio ormai che le vetrine dei social pennellino il narcisismo degli adolescenti. I ragazzi della fascia 14-19 mediamente ne fanno circa 5 al giorno, con punte massime di 100, contro i 2 selfie al giorno dei più piccoli che preferiscono utilizzare maggiormente i video e i messaggi audio.
Circa 2 adolescenti su 10 condividono tutti i selfie che fanno sui social network e su WhatsApp, andando a ledere completamente il concetto di privacy e di intimità che ormai si è trasformata in un’intimità condivisaQuesto dato è in cresciuto rispetto al 2015 dove il problema riguardava il 15%.
Il dato più grave e allarmante è che circa 1 adolescente su 10 fa selfie pericolosi in cui mette anche a repentaglio la propria vita e oltre il 12% è stato sfidato a fare un selfie estremo per dimostrare il proprio coraggio.

Challenge o sfide social che favoriscono i disturbi alimentari e l’abuso di alcol

Le Challenge o Sfide Social sono uno dei problemi del momento e racchiudono tutte quelle catene che nascono sui social network in cui si viene nominati o chiamati a partecipare da altri attraverso un tag. Lo scopo in genere è di postare un video o un’immagine richiesta, per poi nominare altre persone a fare altrettanto, diffondendosi a macchia d’olio nel Web, anche nell’arco di poche ore.
2 adolescenti su 10 hanno partecipato ad una moda a catena sui social e il 50% ha avuto una nomination.
Circa 1 adolescente su 10 ha preso parte ad una catena alcolica sui social network, con la finalità in genere di bere ingenti quantità di alcol in pochissimo tempo e nei luoghi o posizioni più improbabili, altri hanno fatto selfie mentre vomitavano o in condizioni vicine all’intossicazione alcolica.
A queste si aggiungono le mode in cui il corpo e la magrezza hanno un ruolo centrale, a cui aderiscono 5 ragazze su 100, favorendo lo sviluppo di patologie nella sfera alimentare. Le mode più conosciute legate all’ispirazione al magro sono: Thigh Gap (arco tra le gambe), Bikini Bridge (ponte nel costume da bagno sulla pancia), Sfida della clavicolaBelly Slot (fessura nella pancia) e Belly Button (far girare il braccio dietro la schiena fino a toccarsi l’ombelico).
Fonte: Adolescienza - dati Osservatorio Nazionale Adolescenza - dott.ssa Maura Manca

lunedì 20 marzo 2017

Family Link: la app di Google per gli under 13 e i loro genitori

Google sta aprendo i suoi servizi online ai bambini al di sotto dei 13 anni, grazie a un nuovo strumento chiamato Family Link: un’applicazione che consente ai genitori di gestire i contenuti presenti nei dispositivi dei propri figli.
Si tratta di uno dei primi tentativi da parte di una grande azienda di affrontare direttamente la realtà dei bambini che utilizzano la tecnologia.
Family Link permette ai bambini di utilizzare i veri servizi di Google – come Gmail, Maps, Chrome e altri – e non le versioni riadattate per bambini. Tuttavia, gli account destinati ai bambini saranno direttamente legati a quelli dei genitori, attraverso una serie di controlli granulari i genitori potranno inoltre stabilire ciò che i bambini possano o non possano fare.
Google ha lanciato la versione beta e limitata di Family Link il 15 marzo. L’azienda punta a testare il gradimento e i feedback prima di lanciare la app su scala più ampia già entro la fine dell’anno.
L’apertura dei servizi per i bambini al di sotto dei 13 anni si rifà all’Online Privacy Protection Act, una legge statunitense vecchia quasi di due decenni, nella quale non si vieta ai bambini al di sotto dei 13 anni di usare Internet, ma se ne limitano i servizi e alle società si inibisce la possibilità di raccogliere i dati dagli under 12. Inoltre si ribadisce l’imprescindibilità del consenso dei genitori prima che un bambino condivida informazioni personali, come il loro sesso, la loro posizione o immagini di sé stessi.
C’è sempre la preoccupazione che i bambini possano incappare in qualche vicolo buio di Internet”, dice Amar Gandhi, direttore della gestione del prodotto di Google, ma anche uno dei creatori di Family Link. E prosegue “Noi di Google pensiamo di sapere come risolvere questo problema perché numerosi membri del nostro team sono loro stessi genitori. Non pensiamo che la tecnologia possa in alcun modo sostituirsi alla genitorialità, ma può di certo essere d’aiuto”.
Family Link risponde alle preoccupazioni dei genitori in riferimento agli accessi alla rete dei minori grazie al parental control. Google si trova in un potenziale campo minato con questa iniziativa. Internet può essere un luogo di confusione e pericolo per i bambini e il successo di Family Link dipenderà dalla comprensione dei dettagli tecnici da parte dei genitori, ambito nel quale i genitori non sanno esattamente come destreggiarsi.
La mossa di Google – seppur rischiosa – affronta un problema reale: i bambini accedono a Internet in età sempre più precoce. Una ricerca mostra l’età media per possedere un cellulare tra i bambini sono 10,3 anni e che il 39 % di questi usi i social media. Per i tablet i numeri sono ancora più eclatanti: nel 2016 l’84% dei bambini tra i 6 e i 12 anni usa questi dispositivi su base settimanale.
Spesso i genitori permettono ai figli di prendere in prestito i propri smartphone o tablet e questi dispositivi non hanno un accesso filtrato a Internet. Ci sono applicazioni di terze parti e servizi che possono limitare i dispositivi specifici di accesso, ma spesso si tratta di strumenti che i genitori non sanno utilizzare accuratamente.
Google ha cercato di affrontare questo problema precedendo partner e competitor. Già con Android 4.3 Jelly Bean ha introdotto i profili con limitazioni, lasciando che i bambini utilizzassero i dispositivi con accessi specifici e limitati, ma a queste restrizioni mancavano i controlli granulari, cosa che invece Family Link può vantare.
Family Link infatti punta a risolvere la questione. Anziché limitare gli strumenti dei genitori, vengono limitati gli accessi di un dispositivo specifico, dotando i bambini di un proprio account con tanto di indirizzo Gmail, gestito dai genitori stessi. In questo modo, l’esperienza del bambino viene gestita sulla base della concessione o revoca di autorizzazioni da parte degli adulti.
I genitori gestiranno Family Link tramite una app scaricabile da Google Play. Una app simile sarà installata sul dispositivo del bambino e una volta che il genitore avrà impostato il programma su entrambi i dispositivi, questi saranno collegati tra loro. Per ora entrambi i telefoni devono essere Android, ma Google ha anticipato di essere al lavoro anche per una versione iOS.
I genitori possono così consentire o bloccare l’accesso a qualsiasi applicazione sul dispositivo di un bambino. Poi, una volta che queste applicazioni saranno state approvate, il genitore potrà controllare di tanto in tanto, a seconda delle necessità, le autorizzazioni e i blocchi.
I genitori possono anche impostare un limite di tempo da trascorrere davanti allo schermo, con limiti differenti per ogni giorno della settimana. Si possono impostare momenti di blackout, così i bambini non saranno in grado di accedere ai propri dispositivi durante i pasti o dopo un certo orario di notte, ad esempio.
Ogni volta che un bambino vorrà scaricare un’applicazione o visitare un sito con restrizioni, Family Link invierà al genitore una notifica che loro potranno approvare o rifiutare. I genitori potranno anche fruire della visualizzazione di analisi dettagliate dei contenuti utilizzati dai figli e per quanto tempo lo facciano.
La maggior parte dei servizi di Google sono tutti disponibili per i bambini, con una sola eccezione: YouTube. Potranno però accedere a YouTube Kids che ha di default dei propri controlli e restrizioni.
I più critici vedranno Family Link come un’espediente da parte di Google per coltivare nuovi clienti agganciandoli ai loro servizi sempre più precocemente rispetto ai tempi naturali, ma non si può dimenticare che i ragazzi navigano in Internet e utilizzano sia smartphone che tablet da molto tempo prima che Google creasse dei nuovi strumenti per affrontare questa realtà. E a Google si deve il merito di essere stata la prima società ad affrontare il problema a testa alta, offrendo ai genitori un livello di controllo su misura.
Se Google riuscirà a far sì che i bambini trascorrano del tempo online in modo sicuro, questa iniziativa potrebbe dilagare tra gli altri giganti della tecnologia come Facebook, Apple, Microsoft e tutti gli altri colossi potrebbero muoversi nella stessa direzione.

venerdì 23 settembre 2016

Non è la rete ad essere cattiva

Opera di Ian Cheng
È in corso da mesi un attacco alla rete che manifesta picchi assai evidenti in concomitanza con tragici fatti di cronaca nera. Si allestiscono allora, in tutta fretta, trasmissioni ad hoc sull’“Internet assassina”. Si vergano con cura raffinati editoriali sui “social che uccidono” e sulla “morte che corre nei gruppi di WhatsApp”. Si reclamano a gran voce norme più stringenti contro i bulli, i pedofili, gli stalker, i maniaci e i terroristi, e si glorifica la censura. Si rimpiange pubblicamente la vita in campagna (ovviamente disconnessa). Le forze dell’ordine consigliano di controllare ogni sera i telefonini dei figli, subito dopo il bacio della buonanotte. E il tutto per giungere alla prevedibile conclusione che, alla fine, se proprio vogliamo essere onesti, Internet, nel mondo moderno, non è che sia poi così importante. Anzi, si potrebbe anche chiudere: ha portato solo pornografia, odio e una violenza verbale ormai fuori controllo. 
In un simile assalto alla carovana digitale, i primi a essere felici sono i politici, che non vedono l’ora di regolamentare un ambiente che in realtà (ma non lo ammetteranno mai) non è più quel “Far West giuridico” cui si appellavano negli anni Novanta e che, ormai, è iper-regolamentato. Quasi sempre iper-regolamentato male. 

Non è tutto: in questo ambiente sotto attacco, il diritto sembra non bastare più. Il codice penale è troppo poco. Le garanzie del processo e del sistema giudiziario non sono più sufficienti e, chiaramente, sono molto più lente dello scorrere incessante dei dati digitali. Sarebbe allora opportuno rispolverare la gogna, e rispondere con gli stessi mezzi (e gli stessi toni) a chi semina odio. Per poi, però, recitare, a cadenza regolare, un collettivo mea culpa (per il peccato del clickbaiting) e poi, poco dopo, ricominciare tranquillamente come prima. 
I giudici più influenti, che sono anche gli esecutori della pena (come un nuovo Giudice Dredd digitale), sono oggi coloro che hanno più seguaci, più lettori, più follower, più fan. Hanno potere di vita e di morte. Possono far perdere il lavoro in un attimo, esporre al pubblico ludibrio, magari portare al suicidio. Con un tweet o uno status.

L’attacco in corso si basa su una tecnica molto semplice: il confondere i piani e le priorità. Il mettere a fuoco il dito, e non osservare la luna. 
Il problema non è più uno stupro, o un suicidio, o la mancanza di solidarietà femminile, o l’odio “reale” tra ragazze, o la perversione nel provare piacere vedendo una persona soffrire, o il non reagire in presenza di una situazione degradante e umiliante per altri. No: il problema è il video che circola sui social e che riprende quella scena, la rete che amplifica e non dimentica, la testimonianza ormai incontrollabile del fatto. Non è più un problema di comportamento delle persone (luna), ma è colpa della rete e dei social (dito). Se un bullo dodicenne aggredisce e riprende un coetaneo disabile, il problema non è di educazione e di civiltà ma del video che circola su YouTube e, quindi, di urgenza di regolamentazione della rete e delle piattaforme tutte.
Sono due, in sintesi, i motivi per cui questo attacco è portato oggi con una simile veemenza. 
Il primo è per evitare di affrontare i veri problemi. 
Tutti sono ormai consapevoli della capacità della rete di amplificare il danno, di diffondere su larga scala il pensiero dell’uomo, di far “rimbalzare” le parole, anche le peggiori, ai quattro angoli del mondo. Ma non tutti comprendono come non vi sia neppure lontanamente paragone tra i lati positivi della rete (quanto ha cambiato nell’economia dell’umanità degli ultimi decenni, e il bene che ha portato) e i suoi lati negativi. Lati negativi che, sia chiaro, si trascina dietro proprio come se li trascina dietro ogni ambiente sociale. 
Si tratta, quindi, di un bersaglio facile e suggestivo, soprattutto per chi non la conosce a fondo, ma è un bersaglio facile come lo sarebbero oggi molti genitori, o molti direttori di giornali e giornalisti, o molti politici, o molti educatori. Ci si dimentica che tutta la società, tutto il diritto, tutte le relazioni sociali stanno diventando, oggi, digitali. 

Molto più difficile, a mio avviso, è comprendere e ragionare sullo stato della cultura e della civiltà di chi usa Internet, Twitter e i social network, magari partendo da chi ha una posizione “di garanzia”, in base alla quale dovrebbe dare il buon esempio: si pensi ai politici, ai media, ai genitori. Questi sono temi, però, che è meglio evitare. Molto meglio affibbiare responsabilità alla rete e ai social. 
Eppure, se riflettiamo un attimo, i problemi del bullismo (è in aumento anche quello femminile), della mancanza di educazione, di civiltà e di rispetto altrui nei rapporti e nei dialoghi, della diffusione di toni esasperati mantenuti per ottenere più voti, più lettori o più click, della crisi generalizzata di molti valori, dovrebbero essere risolti ben prima di attaccare la rete, anche perché la rete e i social sono lo specchio delle nostre vite e delle nostre civiltà. Non esistono rete e social quali entità indipendenti dalla nostra cultura, dai nostri valori, dalla nostra civiltà. Sono ormai inscindibili. Questo è forse il motivo per cui non amo sentir parlare di “cultura digitale”, di “rispetto online” o di “educazione informatica”. Cultura, rispetto ed educazione sono gli stessi online e offline. 

Il secondo motivo per cui questo attacco alla rete è in corso è un palese tentativo di controllo: una rete così libera, inarrestabile, dinamica e potente dà fastidio a molti. 
La scusa per il controllo è il sostenere che il male portato dalla rete sia superiore al bene, che il livello di criminalità informatica sia ormai al limite, che la rete sia popolata solamente di bulli, pedofili, stalker, maniaci, terroristi e truffatori. E allora si cercano nuovi reati, o si prospettano nuove aggravanti per far sì che, se è coinvolta la rete, la sanzione debba essere ancora più dura. 
Del resto, la crisi delle norme che, da almeno un ventennio, hanno in Italia un approccio liberticida nei confronti del digitale sono, in realtà, l’evidenza più chiara della crisi dei valori della politica. L’incomprensione che una rete libera, aperta, trasparente è più portata a condurre con sé benefici rispetto a una rete criminalizzata e chiusa, continua a condizionare tutte le norme proposte, compreso il tanto discusso disegno di legge sul cyberbullismo, in approvazione proprio in questi giorni, ricco di aspetti liberticidi.

Tutti siamo consapevoli, ormai, di quale sia il grande potere della rete in contesti tragici (meglio: in ogni contesto). L’amplificazione del danno, facendo circolare le informazioni con modalità così rapide e diffuse che l’umanità non ha mai sperimentato prima, e la persistenza del dato, con un oblio tecnicamente inesistente e l’impossibilità di rincorrere e recuperare l’informazione dopo che la stessa abbia iniziato a circolare. 
Queste due caratteristiche, però, non sono solo aspetti negativi: sono aspetti che richiedono una maggiore cautela non appena si entra in questo ambiente. A contrario, l’indicare la rete e i social come la causa di questi avvenimenti, come tecnologie generatrici di odio o di violenza, altro non fa che allontanare l’attenzione dai problemi veri, e dalla possibilità di risolverli realmente. 

La verità è che risolverli, spesso, non conviene. Non importa. Il risolverli non porta audience, né profitti o click. Il risolverli richiederebbe un dialogo pacato, tanta pazienza, una incrollabile fiducia nel diritto e nel sistema giuridico esistente, oltre a tanta cultura, civiltà e rispetto non solo dell’altro, ma anche dell’ambiente digitale e di un ecosistema tra i più delicati esistenti. 
Tutti questi elementi, peraltro, troverebbero nel mondo digitale, per com’è stato costituito, il veicolo migliore per circolare, e il mezzo ideale per portare effetti benefici alla società tutta.


giovedì 25 ottobre 2012

Privacy, la scuola digitale nel mirino del Garante

L'Autorità ha pubblicato un “decalogo” dedicato a studenti e professori. Antonello Soro: "Uno strumento in più per facilitare l'uso delle nuove tecnologie nelle aule"

Il Garante per la protezione dei dati personali ha di recente pubblicato un “decalogo” con il quale ha ricordato le regole principali per garantire la privacy di studenti e professori nelle aule scolastiche.  L’intento non è sanzionatorio, come ricordato dal Presidente Antonello Soro, ma è “quello di facilitare la comprensione degli indirizzi che il Garante ha fornito in passato e che ha aggiornato anche recentemente”. L’obiettivo, insomma, è soprattutto “quello di far crescere nell’opinione pubblica italiana  la consapevolezza del valore dei dati personali, della cultura della riservatezza, di questo bene prezioso che in questo tempo è molto spesso messo a rischio”. L’Autorità ha voluto dunque dotare  studenti e professori, ma anche genitori, di uno strumento in più, utile per dare indicazioni in particolare riguardo all’uso delle nuove  tecnologie a scuola. Negli ultimi anni, infatti, la nostra società ha visto aumentare in maniera considerevole l’importanza di strumenti tecnologici, quali smartphone e tablet, irrinunciabili mezzi di studio e comunicazione per la maggior parte dei giovani. Possiamo parlare di una vera e propria rivoluzione, che ha investito la vita degli adolescenti e di conseguenza è prepotentemente entrata nelle scuole. La generazione digitale e gli ormai famosi “Internet natives” hanno visto anche la nascita di modalità comunicative nuove: i social network. Se in un passato non troppo remoto, siti come Facebook o YouTube occupavano una piccola sfera della vita personale di ognuno di noi, oggi hanno assunto  un ruolo chiave. Le conseguenze del rendere la vita sempre più social, però, spesso ricadono anche su chi vorrebbe che la propria privacy non finisca sul web. Il rischio di ritrovarsi taggati da altri su internet, e senza nemmeno aver dato il consenso, è ormai frequente. Il Garante ha ritenuto fondamentale un intervento che segnali opportunità e rischi di queste tecnologie, affinché possano essere utilizzate  nel rispetto della propria privacy e di quella degli altri. Smartphone e tablet, vengono spesso utilizzati per registrare lezioni, cercare informazioni in rete, scaricare libri, così da sfruttare la tecnologia anche come mezzo di crescita culturale, e non solo a mero strumento di gioco e social networking,  ma tali azioni dovrebbero essere indirizzate ad un uso rigorosamente personale. Occorre fare attenzione quindi alla condivisione sul web di info e contenuti che riguardano altre persone (professori e compagni di scuola). Un esempio è quello della pubblicazione senza consenso di foto e video di altre persone che potrebbero ledere la riservatezza o la dignità altrui e quindi comportare conseguenze innanzitutto disciplinari. Si intende proteggere la privacy di chi non vuole le proprie fotografie sbattute sulla rete e rispettare la dignità di professori o di compagni più deboli.  Il Garante ha sottolineato che saranno le scuole a decidere come regolamentare o vietare l’uso di cellulari.

 

 

venerdì 5 ottobre 2012

Censis: un italiano su due è su Facebook

Calano i lettori, crescono gli utenti internet. Meno della metà degli italiani legge più di un libro l'anno. I giovani sempre più disaffezionati a libri e quotidiani. E' iniziata l'era biomediatica. Adesso è ufficiale, lo ha confermato il Censis con il suo ultimo rapporto sulla comunicazione dal titolo molto emblematico: "I media siamo noi".

Internet, social network, smartphone e tablet sono parte della nostra vita. Appendici tecnologiche della nostra quotidianità.
Diciamo pure addio alle vecchie teorie sulla comunicazione ("Bullet Theory" e compagnia bella), è arrivata l' "era biomediatica". Scordiamoci l'immagine stereotipata di una massa inerme di spettatori a cui i media inoculano concetti e idee, oggi internet, lo strumento "democratico per eccellenza" (e su questo ci sarebbe da discutere) ha aperto una nuova fase del rapporto media-utente. L'individuo diventa un tuttuno con i mezzi, è creatore e fruitore al tempo stesso di tutti i contenuti della rete. Pensiamo alla diffusione degli smartphone, permette ai cittadini di registrare e fotografare ogni fatto che accade e di caricarlo poi sui profili Facebook e Twitter. L'utente insomma diventa contenuto, questa è la grande rivoluzione mediatica nei nostri tempi.
Internet è il grande idolo odierno, lo strumento che permette la "fusione" tra individuo e contenuto, e mentre la sua fama cresce, i "vecchi media" rischiano di perdere parte del loro fascino. In Italia si registra non solo la recessione economica ma anche quella culturale. Un po' azzardato direte voi, eppure il rapporto Censis-Ucis sulla comunicazione "I media siamo noi" dice che più della metà degli italiani legge meno di un libro all'anno, mentre uno su due usa quotidianamente Facebook. Dati alla mano non si può che appurare come lo scenario sia piuttosto agghiacciante. Sul web naviga il 62,1% della popolazione (+ 9% dell’utenza rispetto al 2011) e gli iscritti a Facebook sono in continua crescita passando dal 49% dello scorso anno all’attuale 66,6% degli internauti, ovvero il 41,3% della popolazione. La creazione di Mark Zuckerberg non è l'unica passione nostrana, anche YouTube riscuote successo, il rapporto aggiunge che il portale web nel 2011 raggiungeva il 54,5% di utenti tra le persone con accesso a internet, arriva ora al 61,7%, pari al 38,3% della popolazione complessiva. Intanto l'emorragia di lettori non si arresta e colpisce il mondo dell'editoria in maniera trasversale, nell'ultimo anno i quotidiani hanno registrato un calo di lettori pari al 2,3% (fino a cinque anni fa la percentuale di lettori era del 67%, oggi è scesa al 45.5%), mentre le testate on-line contano circa 2,1% in più di utenti, tutto questo grazie al pullulare di smartphone e tablet.
Non va molto bene nemmeno la free press, che perde l`11,8% di lettori (25,7% di utenza), si registra inoltre un calo per i settimanale che scendono di un punto percentuale (27,5% di utenza). Anche l'editoria libraria è in profondissima crisi, soprattutto tra i giovani sempre più affezionati ai social network e lontani dalla carta stampata. Tra il 2011 e il 2012 i lettori di quotidiani tra i 14 e i 29 anni sono diminuti circa del 2%, quelli di libri sono passati da una percentuale del 68% al 57%. In lenta crescita il mercato degli e-book che avanza dell'uno per cento.
Insomma non siamo certo quello che si può definire un popolo di lettori, e la situazione si aggrava di anno in anno.
L'ultimo rapporto dell'Istat "La Produzione e la lettura di libri in Italia" redatto nel 2010/2011 già delineava orizzonti preoccupanti. I dati sottolineavano infatti che coloro che si definiscono "lettori accantiti" e che leggono circa 12 libri l'anno solo sono il 13%degli italiani. Un punto a favore delle donne che sono lettrici più assidue degli uomini: il 51,6% di loro leggono almeno un libro rispetto al 38,5% dei maschi.

Fonte: Il Giornale - Autore: Luisa De Montis

martedì 22 novembre 2011

Internet a prova di bimbo


Google offre lezioni per colmare il divario digitale: le scuole italiane sono le più indietro in Europa Dati scoraggianti emersi nel giorno degli Stati Generali 2011 della Società Italiana di Pediatria .

 Fornire a genitori e insegnanti strumenti e consigli per aiutarli a scegliere i contenuti che i loro bambini possono visualizzare online. Nel giorno degli Stati generali indetti dalla Società italiana di Pediatria (Sip), il Centro sicurezza online per la famiglia di Google, il motore di ricerca su Internet più utilizzato al mondo, che proprio sul tema della protezione dei minori sul web, mette l’accento sull’importanza di «guidare i bambini all’utilizzo del web, esattamente come si insegna loro a camminare, a scrivere, parlare», dice Simona Panseri, direttore della Comunicazione e responsabile dei progetti Child Protection di Google Italy. «Il centro - spiega - è attivo da quasi un anno e mette a disposizione delle famiglie una serie di strumenti utili per accompagnare gli ’adulti di domanì a un utilizzo corretto e non rischioso di internet». Compito non facile, dato che spesso «i ragazzi sono molto più bravi e smaliziati dei genitori. Ma è possibile far comprendere loro che, come nella vita, esistono delle regole anche nella Rete». Un esempio su tutti, il filtro SafeSearch sulle ricerche che consente di alzare il livello di protezione, che normalmente è medio, a quello massimo. E se il bambino tenta di manomettere le impostazioni inserite dai genitori «avrà la percezione di averlo fatto, mentre invece è solo chi possiede la password a poter modificare il filtro». Stesso discorso anche su YouTube, «che è adatto all’uso dai 13 anni in sù: i minori di questa età non possono aprire account nè postare video. Si possono mostrare i filmati ai piccoli, ma in presenza di un adulto». YouTube organizza anche incontri nelle scuole in collaborazione con la polizia postale, per insegnare agli alunni «l’importanza delle impostazioni sulla privacy, di non pubblicare dati personali su Internet e le regole di sicurezza su come e quali video o immagini è meglio postare o meno».  Dopo il successo dello scorso anno, che ha visto l’adesione di più di 180.000 studenti, YouTube e la polizia delle comunicazioni hanno rinnovato l’appuntamento formativo anche per l’anno scolastico 2010-2011, allargando l’invito anche ai genitori. Tutto questo in un panorama scoraggiante: la popolazione italiana è ancora indietro sull’uso di Internet, che spesso è però consultato dai bambini in assoluta solitudine, senza controlli. I bambini e gli adolescenti italiani infatti sono agli ultimi posti in Europa per alfabetizzazione digitale, le scuole nostrane sono quelle con il minor accesso a Internet nella Ue (49% contro una media del 62%), e gli insegnanti italiani sono all’ultimo posto per l’utilizzo di internet a scuola (65% contro il 73%). Sono alcuni dei dati di un’indagine europea condotta in 25 paesi su 25 mila bambini tra i 9 e 16 anni, presentata a Milano agli stati generali della pediatria. I minori iniziano dunque a usare il web sempre prima: a 7 anni in Svezia e Danimarca, 8 negli altri paesi nordici, 10 in Grecia, Italia e Portogallo. Il 93% del campione ha detto di navigare in rete almeno una volta a settimana, il 60% una volta al giorno per 90 minuti, spesso senza la supervisione di un adulto. L’Italia registra un primato poco invidiabile su questo fronte, visto che ha il dato più alto (62% contro il 49%) di accessi a internet dalla propria camera senza la supervisione di un genitore. Anche se web viene usato per attività positive, come ricerche scolastiche (85%) e giochi (83%), sono sempre più numerosi i piccoli presenti sui social network. Il 57% in Italia ha un suo profilo su Facebook e simili, anche se vietati ai minori di 13 anni. Il 26% ha 9-10 anni, il 49% ha 11-12 anni, il 73% ha 13-14 anni e l’82% ha 15-16 anni. Le insidie non mancano: il 41% dei ragazzi si è imbattuto infatti in contenuti pericolosi, e il 12% ne è rimasto turbato. Tra questi c’è la pornografia (vista dal 7% dei ragazzi tra i 9 e 16 anni in Italia), bullismo (2%), sexting, cioè messaggi a sfondo sessuale (15% in Ue, 4% in Italia), incontri offline con persone conosciute in rete (4%), o visto video generati dagli utenti che inneggiano all’odio (12%), anoressia (12%) e autolesionismo (7%). Ma i genitori, soprattutto italiani, sono spesso inconsapevoli di tutto ciò. Solo il 28% usa filtri Internet, il 73% ritiene che non vi siano pericoli di incontri in rete che possano turbare e l’81% ignora che i propri figli abbiano ricevuto online messaggi offensivi.
Fonte: La Stampa