Si continua a parlare di Internet, qualcuno lo trasforma in diritto e lo
mette anche in Costituzione (Islanda), tutti si riempiono la bocca con
l’equazione +internet=+democrazia e più libertà (chiedete a Twitter e
alla sua disponibilità alla censura cinese se questo significhi libertà e
democrazia)
in Italia il Governo lancia in grande stile la Pubblica amministrazione online.
Tutto bello, tutto perfetto ma, tralasciando le questioni sulla libertà e
sui diritti, e concentrandosi solo sulla questione italiana, la domanda
sorge spontanea: che senso ha spostare i documenti della pubblica
amministrazione online se, in Italia, sono meno quelli che Internet la
usano di quelli che, per vari motivi, non sanno più o meno neanche cosa
sia? A che servono 7 mln di documenti della PA on line se 4 famiglie su
10 non hanno internet e il 39% tra 16 e 74 anni non si è mai collegata?
Il
digital divide nel nostro Paese è un problema serio, che affonda le sue
radici in ritardi infrastrutturali (la tanto sospirata banda larga) e
culturali. E’ un problema talmente tanto serio che il rischio vero è
quello di creare cittdini di serie A, connessi e quindi comodamente
seduti a casa propria, e cittadini di serie B, disconnessi e
pazientemente in fila negli uffici. E’ un problema solo di tipo civile?
Riguarda la sfera della pubblica amministrazione e della buona gestione
della cosa pubblica? No, non direi. Avere una fetta maggioritaria di
popolazione che Internet non la mastica è un problema ben più ampio.
Investe le aziende, che non riescono a cogliere le opportunità che il
Web offre loro, investe i comunicatori, gli uomini marketing, tutto il
mondo che del web sta facendo business, che, alla fine, si ritrova ad
aver a che fare sempre con la stessa platea di abitanti della Rete.
Platea che non cresce, anzi. Ampliare l’accesso alla Rete, investire
finalmente in banda larga e in informatizzazione non solo della PA ma
anche delle famiglie, vorrebbe dire anche, e soprattutto, fare una
grande operazione culturale per questo Paese. Abituare le persone ad
avere un rapporto online con la PA significherebbe educarle all’uso
dello strumento tout-court. Volete che poi, una volta capito come
funziona e, soprattutto, avendo banda a disposizione a costi
ragionevoli, quegli stessi utenti sulla Rete non ci restino, magari per
navigare, leggere, informarsi e comprare?
Nel frattempo l’articolo di Massimo Sideri sul Corriere, oggi, è davvero illuminante e, se permettete, allarmante.
L’accesso impossibile a Internet per quattro famiglie su dieci Il 39% della popolazione tra i 16 e 74 anni non si è mai collegata al Web. In Inghilterra solo il 10%
Lo
stato di salute del rapporto tra noi cittadini e la pubblica
amministrazione è ricco di statistiche e alcune sono sorprendenti. La
transizione verso il digitale in Italia è al palo? Tutt’altro. Se si va a
prendere la percentuale di servizi pubblici di base interamente
disponibili online – la fonte è la Commissione europea – l’Italia
raggiunge il 100%, saldamente davanti alla Germania (90,9), Francia
(83,3) e Unione Europea a 27 (80,9). Anche la tanto osannata Finlandia è
ora sotto di noi. La crescita è stata esponenziale. Solo a metà del
2009 eravamo al 55,6% e dovevamo guardare in alto per subire l’ironia
degli altri Paesi europei. Per inciso, è interessante osservare che
anche la Spagna ha subito un’accelerazione fermandosi però al 91,7%.
Dovendo riconoscere a Cesare quel che è di Cesare quella curva
esponenziale ha un nome: Renato Brunetta, il ministro della Pubblica
amministrazione del governo Berlusconi. Il suo progetto di
digitalizzazione della Pubblica amministrazione ha ottenuto
dei risultati che sulla carta sono ottimi. Ora il decreto legge sulle
Semplificazioni, nel capitolo in cui implementa la cosiddetta Agenda
digitale, ha dato un’ulteriore spinta a questo processo con 7 milioni
di documenti e certificati che verranno forniti «solo» online. È la
prima fase di quella che Stefano Parisi, alla guida della neonata
Confindustria digitale, ha definito sul Corriere come switch off dello
stato analogico. Una strategia condivisibile anche per Francesco Sacco
dell’Università Bocconi che, insieme a Stefano Quintarelli, è stato uno
dei promotori del manifesto per l’Agenda digitale in Italia.
Ma
allora la domanda spontanea è: come mai l’ e-government italiano non
fa scuola? Se ci si sposta sulla percentuale di cittadini che negli
ultimi 3 mesi ha inviato o ricevuto un documento della pubblica
amministrazione online si scopre che rifiniamo in fondo alla classifica:
10,7% contro il 19,3 dell’Unione, il 21,2 della Francia e il 32,3
della Finlandia. Addirittura tra il 2008 e il 2010 siamo peggiorati di
quasi due punti percentuali. Nel 2006 eravamo al 13,7%. Da una parte
una crescita esponenziale, dall’altra un trend negativo: il nodo da
sciogliere inizia a intravedersi. E per definirne meglio i contorni vale
la pena di incrociare i numeri della Commissione con i dati Eurostat del dicembre 2011 sulle case con un accesso a Internet:
62% in Italia, contro l’83 della Germania, il 76 della Francia, l’85
della Gran Bretagna, l’84 della Finlandia e il 91 della Svezia. In
soldoni: 4 famiglie su dieci in Italia non hanno fisicamente la
possibilità di collegarsi al web tramite rete fissa. Peggio: il 39%
della popolazione tra i 16 e i 74 anni non si è mai collegata alla rete
né fissa né mobile. Solo un inglese su dieci non ha mai sperimentato
una pagina web in qualunque sua forma. Siamo degli emarginati digitali.
E questi due ultimi dati ci dicono che un po’ è analfabetismo e un bel
po’ assenza di infrastrutture. In Italia è come se avessimo
costruito tutti i caselli ma non ci fosse ancora l’autostrada (e, anzi,
talvolta si spaccia per autostrada una semplice statale).Fonte: Online Media Relations - Autore: Daniele Chieffi
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