La mamma di Rebecca aveva provato a toglierle il cellulare. Le aveva
fatto anche chiudere il profilo Facebook e le aveva cambiato scuola.
Aveva capito che c’era qualcosa che non andava. Ma non aveva idea che
sua figlia, un ragazzina di 12 anni, nata e cresciuta in Florida, fosse
diventata il bersaglio di un gruppo di cyberbulli. Non immaginava
nemmeno che tutti i giorni sul suo smartphone arrivassero messaggi
terribili, che il più gentile fosse «devi morire, fai schifo».
Così, quando Rebecca ha deciso di lanciarsi nel vuoto dal tetto di
una vecchia fabbrica di cemento a meno di un miglio da casa, non ha
potuto fare niente per fermarla. Perché quella mamma che ora si dispera
forse non sa nemmeno cosa sia Kik Messenger, quella maledetta
applicazione attraverso la quale perseguitavano la sua bambina. Eppure,
se si vanno a leggere i centinaia di commenti dei lettori all’articolo
sul sito del New York Times
che racconta la vicenda, per molti è stata quell’app ad avere ucciso
sua figlia. Come se un social network o un software potessero uccidere
qualcuno.
Cyber bullismo, lo chiamano. Il primo a usare l’espressione fu
l’educatore canadese Bill Belsey. È da anni che se ne parla. «Il web è
pericoloso per i ragazzi. Perché loro rimangono soli davanti a uno
schermo», è la teoria più diffusa. «In Rete i giovani sono alla mercé di
chiunque», avvertono gli psicologi. Dei bulli, dei malintenzionati, dei
troll, dei pedofili. Il risultato? Ricatti, foto rubate e poi rese
pubbliche, insulti e hatespeech, messaggi anonimi che nessuno può rintracciare, trolling e harassment
(molestie). Parole e neologismi spesso in inglese. Perché questi
fenomeni fino a oggi hanno riguardato per lo più Stati Uniti e Gran
Bretagna. Ma è successo anche qui in Italia, qualche giorno fa. Un
gruppo di ragazzi a Bologna ha usato Ask.fm, social network creato in Lettonia, per organizzare una mega rissa ai giardini Margherita. E fa rabbrividire che Ask.fm sia lo stesso mezzo attraverso il quale Hannah,
un’adolescente del Leicestershire, riceveva ogni giorno centinaia di
messaggi in cui veniva invitata a suicidarsi. Hannah si è impiccata in
bagno, mentre i genitori erano giù in salotto. Si era iscritta ad Ask.fm
perché voleva essere popolare. Poi aver detto di no a un ragazzo le è
costato la popolarità. E i troll, i provocatori della rete, si sono
scatenati. «Perché non bevi della candeggina così muori?», le hanno
scritto. E per Hannah non erano solo parole.
Usa, Gran Bretagna, Canada. L’elenco dei giovani che si sono tolti la
vita questa estate è lungo. Per lo più ragazze che senza nemmeno
rendersene conto si fanno azzerare l’autostima a colpi di insulti. Ma
anche maschi, magari presi di mira perché più sensibili. Sono tanti i
mezzi a disposizione dei cyberbulli. Kik Messenger, Ask.fm. Ma ci sono
anche le app per il telefonino come Snapchat (che manda messaggi anonimi
e poi li autodistrugge, così da diventare una delle piattaforme più
utilizzate per il sexting, lo scambio di messaggi erotici). E, ancora, Formspring e Voxer. Tutti nomi che per lo più non dicono niente ai genitori.
A leggere le storie di questi ragazzi viene da pensare che il
problema non sia solo la tecnologia. Ma la solitudine. «Rebecca era
terrorizzata dai social network», ha raccontato ai giornali lo sceriffo
della contea di Polk. «Non voleva più andare a scuola. Aveva paura anche
della sua ombra», spiegano gli amici. Ma niente sembra aiutarli.
Nemmeno le leggi — in primis quella introdotta di recente in
Florida — che prevedono le aggravanti per l’istigazione al suicidio via
web. A poco sembrano servire anche i tasti per la segnalazione di abusi,
introdotti da Ask.fm e da Twitter dopo le polemiche sui giornali. Mandi
una mail di protesta e molto spesso non succede niente. E a nulla
servono le petizioni, come quella portata avanti dal padre di Hannah che
ha chiesto la chiusura di Ask.fm. Se lo chiudi, domani ne nasce un
altro. E non si può nemmeno pretendere di delegare la sicurezza degli
adolescenti alle policy di iscrizione. Allora ai genitori non resta che
una strada. Stare attenti. E fare anche di più. Insegnare l’autostima ai
figli. E spiegare loro che non è un like o un post su Facebook a
determinare quanto valiamo. Ma soprattutto che insultare qualcuno
nascosti dietro un profilo anonimo è un comportamento da vigliacchi e da
conigli.
Controllare ciò che gli adolescenti fanno in Rete non è facile. Ogni
giorno nascono nuovi social network e applicazioni e le mode digitali
sono davvero volatili. Soprattutto quelle dei ragazzi. «Ma per i
genitori fare attenzione all’educazione digitale dei figli è ormai
imprescindibile», spiega Luca Mazzucchelli, psicologo milanese. Ecco
alcuni consigli per evitare che i nostri figli diventino vittime del
cyberbullismo o si trasformino in soggetti attivi di questa pratica.
1. Quali accorgimenti «tecnici» possono aiutare a limitare i rischi legati all’uso di computer e smartphone da parte degli adolescenti? Provate le applicazioni e i social network che i ragazzi usano di più. Tenete il computer di casa in sala o in un ambiente comune in modo da poterlo usare insieme. Per quanto riguarda il telefonino, invece, non proibitelo trasformandolo in una trasgressione ma limitatene l’uso. Utilizzate i filtri e le impostazioni di protezione del vostro computer.
2. I nostri comportamenti possono influenzare quelli dei ragazzi?
Date il buon esempio, cercando di non farvi vedere sempre con lo smartphone in mano o attaccati al laptop. Non demonizzate social network e device, non servirebbe a niente se non ad allontanarvi dai vostri figli. Piuttosto cercate di dare il buon esempio usandoli in maniera consapevole e nel rispetto della privacy vostra e dei vostri figli.
3. In che modo si possono preparare i più piccoli ai pericoli che corrono in Rete?
Spiegate loro come difendersi dalle aggressioni online. E metteteli in guardia sui rischi che comporta diffondere in Rete i dettagli della propria vita personale.
4. Che fare se si sospetta che un ragazzo sia vittima di cyber bulli?
Parlate con lui/lei del fenomeno e spiegategli/le che non si tratta di qualcosa di reale. Ma di virtuale. Segnalate l’abuso agli insegnanti, alle autorità e ai responsabili dei social network. Nel caso chiedete un supporto psicologico per i vostri figli.
5. Quali sono i possibili segnali di allarme a cui prestare attenzione?
Se vostro figlio trascorre troppe ore al telefono e al computer potrebbe esserci qualcosa che non va. Occhio anche all’isolamento. Non voler andare a scuola e non voler più vedere nessuno è uno dei primi campanelli di allarme delle vittime di cyberbullismo.
Fonte: Blog Corriere della Sera - Autore: Marta Serafini
Nessun commento:
Posta un commento