Racconta
Marjane Satrapi in Persepolis che, arrivata in Germania dall’Iran senza parlare
una parola di tedesco, riuscì a farsi i primi amici disegnando le caricature
dei professori, e facendole circolare di nascosto tra i banchi.
Da questo, e
da migliaia di altri aneddoti simili, è facile intuire che la pratica di
prendere in giro gli insegnanti – storpiando i nomi, imitandone la parlata o la
camminata, disegnando caricature o parlando male del loro abbigliamento –
precede di molto l’invenzione degli smartphone. Non solo, ma
– come insegna appunto Persepolis – è anche attraverso la presa in giro
dell’istituzione rappresentata dai professori, che i ragazzi riescono
storicamente a creare un terreno comune su cui confrontarsi e sperimentarsi. Insomma, la presa in giro è
uno degli spazi possibili per creare le basi sulle quali diventare amici.
Il caso dei
ragazzini sospesi da scuola a San Francesco al Campo perché scoperti ad
inviarsi via WhatsApp brevi filmati dei professori, commentati da giudizi
impietosi, non presenta quindi niente di nuovo.
Certo, è
cambiato lo strumento: non più caricature, ma filmati; non più bigliettini
strappati al quaderno, ma smartphone ultima generazione.
E, con lo
strumento, ovviamente, è cambiata la
potenziale diffusione. Se inserito su una piattaforma o un social network, il
video di quel professore un po’ buffo potrebbe diventare virale e restare a
disposizione di tutti gli studenti che verranno. Molto peggio, quindi, rispetto
ad una vignetta destinata a sparire nel tempo di una campanella. E decisamente
più dannosa, di conseguenza, la potenzialità della presa in giro, che non è
mutata nelle sue cause (gruppo di studenti versus istituzione) ma nella sua
potenziale diffusione.
In questa
storia, però, quello che sembra essere decisamente più stravolto, e che sposta
completamente i parametri, non sono gli strumenti tecnologici, gli studenti, i
professori o la scuola. Sono i genitori. I quali,
seppur non tutti, hanno vivamente protestato per la punizione inflitta ai figli
(un giorno o qualche ora di sospensione, per aver trasgredito al Regolamento di
Istituto) invocando addirittura la Privacy: il professore, secondo loro, non
avrebbe avuto il diritto di guardare i filmati sui telefonini dei ragazzi e
decidere, di conseguenza, la sospensione. All’interno
di questa alleanza a priori in cui i figli hanno sempre ragione, e che sempre più spesso ci viene raccontata
dalle cronache scolastiche, la tecnologia gioca un ruolo davvero marginale.
Un pò come
gli adulti che nelle carrozze dei treni telefonano impunemente ai propri
colleghi o dipendenti, ignorando le
richieste di abbassare il tono della voce o della suoneria, anche in questo
caso, il problema non è il telefonino, ma la cattiva educazione sociale.
I genitori
che difendono i figli stanno scegliendo di proteggere la loro possibilità di
trasgredire in continuazione alle regole sociali senza dover andare incontro a
nessuna conseguenza. Ben venga,
quindi, la Dirigente dell’Istituto che, con chiarezza, ha difeso la scelta
delle sospensioni: la scuola ha delle regole, così come hanno, o dovrebbero
avere regole tutti i luoghi collettivi.
Le regole
servono.
Ovviamente si
può scegliere coscientemente di tentare di romperle, queste regole, per
divertimento, per bisogno, per insofferenza, per intolleranza, per lotta o per
necessità. E, come ogni genitore sa benissimo, nessuno più di un gruppo di
adolescenti tenterà di farlo in continuazione.
Ma non c’è
nulla di più educativo che scoprire, a dodici anni, di non essere onnipotenti
neanche se si possiede uno smartphone da 700 euro. E che basta una
disattenzione per essere scoperti. Sono cose che
fanno bene. E tra le poche che fanno diventare davvero adulti.
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