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lunedì 9 novembre 2015

Ragazzi sospesi per gli smartphone: chi ha ragione?

 Racconta Marjane Satrapi in Persepolis che, arrivata in Germania dall’Iran senza parlare una parola di tedesco, riuscì a farsi i primi amici disegnando le caricature dei professori, e facendole circolare di nascosto tra i banchi.
Da questo, e da migliaia di altri aneddoti simili, è facile intuire che la pratica di prendere in giro gli insegnanti – storpiando i nomi, imitandone la parlata o la camminata, disegnando caricature o parlando male del loro abbigliamento – precede di molto l’invenzione degli smartphone. Non solo, ma – come insegna appunto Persepolis – è anche attraverso la presa in giro dell’istituzione rappresentata dai professori, che i ragazzi riescono storicamente a creare un terreno comune su cui confrontarsi e  sperimentarsi. Insomma, la presa in giro è uno degli spazi possibili per creare le basi sulle quali diventare amici.
Il caso dei ragazzini sospesi da scuola a San Francesco al Campo perché scoperti ad inviarsi via WhatsApp brevi filmati dei professori, commentati da giudizi impietosi, non presenta quindi niente di nuovo.

Certo, è cambiato lo strumento: non più caricature, ma filmati; non più bigliettini strappati al quaderno, ma smartphone ultima generazione.
E, con lo strumento, ovviamente, è  cambiata la potenziale diffusione. Se inserito su una piattaforma o un social network, il video di quel professore un po’ buffo potrebbe diventare virale e restare a disposizione di tutti gli studenti che verranno. Molto peggio, quindi, rispetto ad una vignetta destinata a sparire nel tempo di una campanella. E decisamente più dannosa, di conseguenza, la potenzialità della presa in giro, che non è mutata nelle sue cause (gruppo di studenti versus istituzione) ma nella sua potenziale diffusione.
In questa storia, però, quello che sembra essere decisamente più stravolto, e che sposta completamente i parametri, non sono gli strumenti tecnologici, gli studenti, i professori o la scuola. Sono i genitori. I quali, seppur non tutti, hanno vivamente protestato per la punizione inflitta ai figli (un giorno o qualche ora di sospensione, per aver trasgredito al Regolamento di Istituto) invocando addirittura la Privacy: il professore, secondo loro, non avrebbe avuto il diritto di guardare i filmati sui telefonini dei ragazzi e decidere, di conseguenza, la sospensione. All’interno di questa alleanza a priori in cui i figli hanno sempre ragione,  e che sempre più spesso ci viene raccontata dalle cronache scolastiche, la tecnologia gioca un ruolo davvero marginale.

Un pò come gli adulti che nelle carrozze dei treni telefonano impunemente ai propri colleghi o dipendenti,  ignorando le richieste di abbassare il tono della voce o della suoneria, anche in questo caso, il problema non è il telefonino, ma la cattiva educazione sociale.
I genitori che difendono i figli stanno scegliendo di proteggere la loro possibilità di trasgredire in continuazione alle regole sociali senza dover andare incontro a nessuna conseguenza. Ben venga, quindi, la Dirigente dell’Istituto che, con chiarezza, ha difeso la scelta delle sospensioni: la scuola ha delle regole, così come hanno, o dovrebbero avere regole tutti i luoghi collettivi.
Le regole servono.

Ovviamente si può scegliere coscientemente di tentare di romperle, queste regole, per divertimento, per bisogno, per insofferenza, per intolleranza, per lotta o per necessità. E, come ogni genitore sa benissimo, nessuno più di un gruppo di adolescenti tenterà di farlo in continuazione.

Ma non c’è nulla di più educativo che scoprire, a dodici anni, di non essere onnipotenti neanche se si possiede uno smartphone da 700 euro. E che basta una disattenzione per essere scoperti. Sono cose che fanno bene. E tra le poche che fanno diventare davvero adulti.


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