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lunedì 14 gennaio 2013

Reati su Facebook: diffamazione, molestie e furto di identità. Come difendersi

bye_bye_facebookQuanti illeciti vengono quotidianamente commessi su Internet senza essere percepiti, dai rispettivi autori, come veri e propri crimini! E quante sono le vittime di tali condotte che non reagiscono solo perché non conoscono le tutele a loro disposizione, così restando completamente impotenti in questo mare di tecnologia!  “La Legge per Tutti” ha deciso di aprire una finestra ai suoi lettori, intervistando l’avvocato Elena Bassoli, di Genova, esperto in diritto dell’Internet, di recente curatrice di un ottimo volume edito dalla Maggioli Ed.: “Come difendersi dalla violazione dei dati su internet”.

La legge per tutti: Cara Elena, grazie per la tua disponibilità a questa intervista.  Avvocato, Presidente dell’ANGIF, docente universitario di diritto dell’informatica: chi meglio di te ci può aiutare a districarci nel mondo degli illeciti commessi tramite internet. Entriamo dunque nel vivo del problema.
 Facebook ha aperto una porta nelle nostre case. Chiunque può vedere quello che facciamo, dove andiamo, chi sono i nostri familiari. Si moltiplicano le possibilità di illeciti, di ricatti, di stalking, di molestie e persecuzioni. Al di là dei filtri della privacy che consente il social network, come si può tutelare l’utente del social network che, tuttavia, voglia essere presente e vivere la piattaforma telematica in piena libertà? Facciamo due casi ricorrenti: il furto di identità e i post diffamatori.

Elena Bassoli: Furto di identità e post diffamatori sono, in effetti, tra le grandi piaghe dei social network, strumenti potenti, invasivi, economici e rapidissimi per creare più di un danno agli altri utenti. Il furto d’identità, ad esempio è più diffuso di quanto si possa immaginare. Qui il problema principale consiste nella errata custodia delle credenziali di autenticazione, quando si tratta di profili già esistenti, o molto più facilmente nella creazione ex novo di “fake”, vale a dire profili falsi, il che integra quanto meno gli estremi del reato di “sostituzione di persona” ex art. 494 c.p. Nel primo caso, che è il meno frequente perché presuppone tecniche di social engineering o accessi abusivi a sistemi informatici e telematici (615-ter c.p.) al fine di carpire login e password al malcapitato, il rimedio consiste, come per tutti gli strumenti a nostra disposizione, nel custodire gelosamente le nostre password e nel non rivelarle a nessuno. Se mia figlia confida la sua password alla compagna di banco e tra un mese l’amica del cuore si trasforma nella più acerrima nemica, è inutile poi che mia figlia si lamenti che qualcuno le è entrato nel profilo. Il caso più frequente è però quello della creazione ex novo di profili falsi che “impersonano” persone reali per gettare discredito sulla loro immagine e subito dopo aver raggiunto lo scopo vengono cancellati. È evidente che io non possa impedire a chicchessia di creare un profilo. Facebook non prevede alcun tipo di filtro in tal senso. Infatti esistono decine di profili corrispondenti a “Mario Rossi”.
Una volta poi che il profilo venga cancellato risulta del tutto inutile la richiesta agli uffici di Menlo Park di qualche informazione al fine di identificare l’impostore. La risposta è sempre la stessa: “una volta cancellato il profilo da noi non lascia traccia. Ci dispiace ma non possiamo esservi utili”.
Certo, esistono tecniche alternative e piuttosto costose, di cui mi sono servita in casi molto delicati, che permettono di risalire alla vera identità dell’impostore e portare la prova in dibattimento, ma non sono per tutti.  Per quanto riguarda i post diffamatori, siano essi diretta conseguenza o meno della creazione di “fake”, il problema resta anzitutto quello della individuazione del soggetto diffamante, il che può anche essere semplice quando costui sia così improvvido da lascarsi trasportare dall’impeto del momento e scriva direttamente alla sua cerchia di conoscenza sulla propria pagina Facebook. Ebbene, in questo caso mi sembra opportuno riportare la sentenza, proprio di questi giorni, che ha suscitato scalpore negli addetti ai lavori per l’innovatività della decisione. Il caso: una ex dipendente licenziata dal suo datore di lavoro, che carica di astio lo offende, ingiuria e diffama dalla propria bacheca Facebook. Il giudice di Livorno ha ravvisato in tale condotta gli estremi del reato di diffamazione a mezzo stampa, così di fatto equiparando la propria bacheca privata (per quanto privata possa dirsi ogni pubblicazione sui social network) alla pubblicazione su un quotidiano o su un sito editoriale. Al di là delle critiche sotto il profilo giuridico a tale impostazione (per anni la giurisprudenza è stata costante nel ritenere correttamente i blog o i social network non equiparabili alla stampa), è pur certo che tale condanna è destinata a far discutere ancora in futuro, avendo aperto la via a pesanti sanzioni di cui gli utenti dei social network non sono affatto consapevoli.

 LLPT: Cosa deve fare l’utente che veda il suo profilo clonato? A quale autorità deve rivolgersi? Può fare tutto senza l’avvocato? Nel tempo che intercorre tra la denuncia e la punizione del colpevole, ci sono mezzi d’urgenza per far cessare l’attività illecita?

E.B.: L’utente col profilo clonato deve anzitutto conservare le evidenze digitali che possano provare la condotta illecita a suo discapito. Deve cioè precostituirsi le prove. Contrariamente a quanto comunemente si crede, non è però sufficiente “catturare la schermata” della pagina incriminata, né tantomeno fare la stampa su cartaceo. Queste prove sono facilmente confutabili in giudizio da controparte che potrebbe difendersi asserendo che sono state manipolate, falsificate, create ad hoc per “incastrarlo”. Per precostituirsi la prova occorre infatti farlo secondo le Best Practices internazionali di Digital Forensics, sancite all’interno della Convenzione di Budapest del 2001 e recepite nel nostro ordinamento dalla L. 48/2008, dove si parla di strumenti e tecniche che garantiscano la inalterabilità e l’originalità della prova. Sono tecniche come dicevo prima, di nicchia che in Italia solo pochissimi esperti sono in grado di mettere in atto e piuttosto costose, che tuttavia possono garantire ottimi margini di riuscita, proprio perché garantiscono la genuinità della prova e “inchiodano” il colpevole. Naturalmente per fare questo la vittima deve conservare ogni traccia e non cancellare nulla. Se è vero che la cattura della schermata non può essere considerata una valida prova in giudizio, tuttavia salvare sul proprio disco fisso le pagine incriminate o le e-mail generate automaticamente dal sistema di Facebook, può certamente essere di aiuto agli esperti nel ricostruire la prova, quella si, producibile in giudizio.
La prima autorità alla quale rivolgersi è senz’altro la Polizia Postale e delle Comunicazioni, che consiglierà per il meglio. Se l’illecito vuole poi essere portato in giudizio ai fini della condanna del colpevole o anche solo per il risarcimento del danno in sede civile, la presenza dell’avvocato diventa indispensabile, ma non di un qualsiasi avvocato, bensì di quelli, e fortunatamente in Italia ce ne sono diversi, che sappia come muoversi nel mondo digitale, magari con un’esperienza ventennale, che abbia cioè avuto modo di seguire l’evolversi della materia e sia al corrente delle ultime novità legislative e giurisprudenziali. Naturalmente occorrerà anche che lo Studio legale sia affiancato da un eccellente staff tecnico in grado di effettuare quelle operazioni di acquisizione della prova digitale di cui si è detto prima. Nel frattempo se il profilo diffamatorio è ancora attivo occorre segnalare l’illecito a Facebook che provvederà a “congelarlo”. Solo dopo si può pensare a un ricorso cautelare d’urgenza per ottenere l’inibitoria del comportamento illecito.


LLPT: Mettiamo che domani una persona che mi voglia danneggiare decida di commentare una mia foto in modo diffamatorio o scrivere qualche post su Facebook al solo scopo di denigrarmi. Che strumenti di tutela ho? Cosa posso fare nell’immediato per tutelarmi? È necessario anche in questo caso sporgere querela?

E.B.: La prima cosa è conoscere bene gli strumenti che Facebook stesso mette a disposizione, e quindi bloccare la persona, eliminare il post o il tag dalla foto, e segnalare il tutto a Facebook. Poi, come detto prima, rivolgersi alla Polizia Postale che ormai è ferratissima in materia, affrontando centinaia di casi al giorno. Naturalmente il modo migliore per evitare in radice che accadano cose di questo genere è stare bene attenti a selezionare le amicizie e sfruttare le opzioni che Facebook mette a disposizione. Io personalmente adotto la tecnica di suddividere prudentemente i miei contatti in Amici stretti, Amici, Conoscenti, e Contatti con restrizioni. Inoltre sto bene attenta a tenere chiusa la mia bacheca dai commenti esterni e a sottoporre alla mia autorizzazione la pubblicazione di elementi postati da terzi.

LLLP: Sappiamo che la polizia postale riesce a individuare gli indirizzi IP degli autori di illeciti su Internet, e quindi anche eventuali soggetti che abbiano commesso condotte illecite a mezzo Facebook. Ma ci si può rivolgere alla polizia postale autonomamente o bisogna prima aver sporto querela alla procura della repubblica? Quanto tempo impiega la polizia postale a individuare il responsabile? Dopo che sia stato individuato il responsabile, cosa si deve fare per far cessare la molestia?

E.B.: Ci si può rivolgere alla Polizia Postale autonomamente, che può raccogliere direttamente la querela, o presentarla alla Procura della Repubblica. I tempi di individuazione del responsabile da parte della Polpost variano in relazione alla tipologia di illecito commesso e in relazione alle sue modalità di esecuzione. Ad esempio, un profilo cancellato richiede senz’altro più tempo di un profilo attivo. Un illecito riguardante la pedopornografia sarà considerato più rilevante di una diffamazione. Possono passare settimane o mesi prima che le indagini volte ad individuare il responsabile portino ad esiti soddisfacenti. Ma ciò non deve indurre a disinteressarsi della propria reputazione in Internet. Una volta individuato il responsabile, infatti, sarà possibile agire sia in sede civile, sia penale, al fine di far cessare la molestia e ottenere la condanno e il risarcimento del danno.
In ogni caso, comunque, per rimuovere le pagine dal social network, sarebbe necessario agire tramite rogatoria internazionale che deve essere richiesta dalla magistratura: il server su cui gira Facebook è a Menlo Park, e dunque l’Italia non può intervenire direttamente. Si può invece chiedere alla società americana, grazie agli accordi di collaborazione, la chiusura della pagina in tempi rapidi. Ma se ciò non è accompagnato dalla richiesta di sequestro preventivo, si perdono tutti i dati relativi alla pagina stessa e dunque risulterebbe impossibile poi risalire all’utente che l’ha realizzata.


Grazie Elena per i tuoi suggerimenti. I nostri lettori te ne saranno certamente grati.Quanti illeciti vengono quotidianamente commessi su Internet senza essere percepiti, dai rispettivi autori, come veri e propri crimini! E quante sono le vittime di tali condotte che non reagiscono solo perché non conoscono le tutele a loro disposizione, così restando completamente impotenti in questo mare di tecnologia! “La Legge per Tutti” ha deciso di aprire una finestra ai suoi lettori, intervistando l’avvocato Elena Bassoli, di Genova, esperto in diritto dell’Internet, di recente curatrice di un ottimo volume edito dalla Maggioli Ed.: “Come difendersi dalla violazione dei dati su internet”.

La legge per tutti: Cara Elena, grazie per la tua disponibilità a questa intervista.
Avvocato, Presidente dell’ANGIF, docente universitario di diritto dell’informatica: chi meglio di te ci può aiutare a districarci nel mondo degli illeciti commessi tramite internet. Entriamo dunque nel vivo del problema.

 Facebook ha aperto una porta nelle nostre case. Chiunque può vedere quello che facciamo, dove andiamo, chi sono i nostri familiari. Si moltiplicano le possibilità di illeciti, di ricatti, di stalking, di molestie e persecuzioni. Al di là dei filtri della privacy che consente il social network, come si può tutelare l’utente del social network che, tuttavia, voglia essere presente e vivere la piattaforma telematica in piena libertà?
Facciamo due casi ricorrenti: il furto di identità e i post diffamatori.

Elena Bassoli: Furto di identità e post diffamatori sono, in effetti, tra le grandi piaghe dei social network, strumenti potenti, invasivi, economici e rapidissimi per creare più di un danno agli altri utenti.
Il furto d’identità, ad esempio è più diffuso di quanto si possa immaginare.
Qui il problema principale consiste nella errata custodia delle credenziali di autenticazione, quando si tratta di profili già esistenti, o molto più facilmente nella creazione ex novo di “fake”, vale a dire profili falsi, il che integra quanto meno gli estremi del reato di “sostituzione di persona” ex art. 494 c.p. Nel primo caso, che è il meno frequente perché presuppone tecniche di social engineering o accessi abusivi a sistemi informatici e telematici (615-ter c.p.) al fine di carpire login e password al malcapitato, il rimedio consiste, come per tutti gli strumenti a nostra disposizione, nel custodire gelosamente le nostre password e nel non rivelarle a nessuno. Se mia figlia confida la sua password alla compagna di banco e tra un mese l’amica del cuore si trasforma nella più acerrima nemica, è inutile poi che mia figlia si lamenti che qualcuno le è entrato nel profilo.
Il caso più frequente è però quello della creazione ex novo di profili falsi che “impersonano” persone reali per gettare discredito sulla loro immagine e subito dopo aver raggiunto lo scopo vengono cancellati. È evidente che io non possa impedire a chicchessia di creare un profilo. Facebook non prevede alcun tipo di filtro in tal senso. Infatti esistono decine di profili corrispondenti a “Mario Rossi”.
Una volta poi che il profilo venga cancellato risulta del tutto inutile la richiesta agli uffici di Menlo Park di qualche informazione al fine di identificare l’impostore. La risposta è sempre la stessa: “una volta cancellato il profilo da noi non lascia traccia. Ci dispiace ma non possiamo esservi utili”.
Certo, esistono tecniche alternative e piuttosto costose, di cui mi sono servita in casi molto delicati, che permettono di risalire alla vera identità dell’impostore e portare la prova in dibattimento, ma non sono per tutti.
 Per quanto riguarda i post diffamatori, siano essi diretta conseguenza o meno della creazione di “fake”, il problema resta anzitutto quello della individuazione del soggetto diffamante, il che può anche essere semplice quando costui sia così improvvido da lascarsi trasportare dall’impeto del momento e scriva direttamente alla sua cerchia di conoscenza sulla propria pagina Facebook. Ebbene, in questo caso mi sembra opportuno riportare la sentenza, proprio di questi giorni, che ha suscitato scalpore negli addetti ai lavori per l’innovatività della decisione. Il caso: una ex dipendente licenziata dal suo datore di lavoro, che carica di astio lo offende, ingiuria e diffama dalla propria bacheca Facebook. Il giudice di Livorno ha ravvisato in tale condotta gli estremi del reato di diffamazione a mezzo stampa, così di fatto equiparando la propria bacheca privata (per quanto privata possa dirsi ogni pubblicazione sui social network) alla pubblicazione su un quotidiano o su un sito editoriale. Al di là delle critiche sotto il profilo giuridico a tale impostazione (per anni la giurisprudenza è stata costante nel ritenere correttamente i blog o i social network non equiparabili alla stampa), è pur certo che tale condanna è destinata a far discutere ancora in futuro, avendo aperto la via a pesanti sanzioni di cui gli utenti dei social network non sono affatto consapevoli.


LLPT: Cosa deve fare l’utente che veda il suo profilo clonato? A quale autorità deve rivolgersi? Può fare tutto senza l’avvocato? Nel tempo che intercorre tra la denuncia e la punizione del colpevole, ci sono mezzi d’urgenza per far cessare l’attività illecita?

E.B.: L’utente col profilo clonato deve anzitutto conservare le evidenze digitali che possano provare la condotta illecita a suo discapito. Deve cioè precostituirsi le prove. Contrariamente a quanto comunemente si crede, non è però sufficiente “catturare la schermata” della pagina incriminata, né tantomeno fare la stampa su cartaceo. Queste prove sono facilmente confutabili in giudizio da controparte che potrebbe difendersi asserendo che sono state manipolate, falsificate, create ad hoc per “incastrarlo”. Per precostituirsi la prova occorre infatti farlo secondo le Best Practices internazionali di Digital Forensics, sancite all’interno della Convenzione di Budapest del 2001 e recepite nel nostro ordinamento dalla L. 48/2008, dove si parla di strumenti e tecniche che garantiscano la inalterabilità e l’originalità della prova. Sono tecniche come dicevo prima, di nicchia che in Italia solo pochissimi esperti sono in grado di mettere in atto e piuttosto costose, che tuttavia possono garantire ottimi margini di riuscita, proprio perché garantiscono la genuinità della prova e “inchiodano” il colpevole. Naturalmente per fare questo la vittima deve conservare ogni traccia e non cancellare nulla. Se è vero che la cattura della schermata non può essere considerata una valida prova in giudizio, tuttavia salvare sul proprio disco fisso le pagine incriminate o le e-mail generate automaticamente dal sistema di Facebook, può certamente essere di aiuto agli esperti nel ricostruire la prova, quella si, producibile in giudizio.
La prima autorità alla quale rivolgersi è senz’altro la Polizia Postale e delle Comunicazioni, che consiglierà per il meglio. Se l’illecito vuole poi essere portato in giudizio ai fini della condanna del colpevole o anche solo per il risarcimento del danno in sede civile, la presenza dell’avvocato diventa indispensabile, ma non di un qualsiasi avvocato, bensì di quelli, e fortunatamente in Italia ce ne sono diversi, che sappia come muoversi nel mondo digitale, magari con un’esperienza ventennale, che abbia cioè avuto modo di seguire l’evolversi della materia e sia al corrente delle ultime novità legislative e giurisprudenziali. Naturalmente occorrerà anche che lo Studio legale sia affiancato da un eccellente staff tecnico in grado di effettuare quelle operazioni di acquisizione della prova digitale di cui si è detto prima. Nel frattempo se il profilo diffamatorio è ancora attivo occorre segnalare l’illecito a Facebook che provvederà a “congelarlo”. Solo dopo si può pensare a un ricorso cautelare d’urgenza per ottenere l’inibitoria del comportamento illecito.

LLPT: Mettiamo che domani una persona che mi voglia danneggiare decida di commentare una mia foto in modo diffamatorio o scrivere qualche post su Facebook al solo scopo di denigrarmi. Che strumenti di tutela ho? Cosa posso fare nell’immediato per tutelarmi? È necessario anche in questo caso sporgere querela?

E.B.: La prima cosa è conoscere bene gli strumenti che Facebook stesso mette a disposizione, e quindi bloccare la persona, eliminare il post o il tag dalla foto, e segnalare il tutto a Facebook. Poi, come detto prima, rivolgersi alla Polizia Postale che ormai è ferratissima in materia, affrontando centinaia di casi al giorno. Naturalmente il modo migliore per evitare in radice che accadano cose di questo genere è stare bene attenti a selezionare le amicizie e sfruttare le opzioni che Facebook mette a disposizione. Io personalmente adotto la tecnica di suddividere prudentemente i miei contatti in Amici stretti, Amici, Conoscenti, e Contatti con restrizioni. Inoltre sto bene attenta a tenere chiusa la mia bacheca dai commenti esterni e a sottoporre alla mia autorizzazione la pubblicazione di elementi postati da terzi.

LLLP: Sappiamo che la polizia postale riesce a individuare gli indirizzi IP degli autori di illeciti su Internet, e quindi anche eventuali soggetti che abbiano commesso condotte illecite a mezzo Facebook. Ma ci si può rivolgere alla polizia postale autonomamente o bisogna prima aver sporto querela alla procura della repubblica? Quanto tempo impiega la polizia postale a individuare il responsabile? Dopo che sia stato individuato il responsabile, cosa si deve fare per far cessare la molestia?

E.B.: Ci si può rivolgere alla Polizia Postale autonomamente, che può raccogliere direttamente la querela, o presentarla alla Procura della Repubblica. I tempi di individuazione del responsabile da parte della Polpost variano in relazione alla tipologia di illecito commesso e in relazione alle sue modalità di esecuzione. Ad esempio, un profilo cancellato richiede senz’altro più tempo di un profilo attivo. Un illecito riguardante la pedopornografia sarà considerato più rilevante di una diffamazione. Possono passare settimane o mesi prima che le indagini volte ad individuare il responsabile portino ad esiti soddisfacenti. Ma ciò non deve indurre a disinteressarsi della propria reputazione in Internet. Una volta individuato il responsabile, infatti, sarà possibile agire sia in sede civile, sia penale, al fine di far cessare la molestia e ottenere la condanno e il risarcimento del danno.
In ogni caso, comunque, per rimuovere le pagine dal social network, sarebbe necessario agire tramite rogatoria internazionale che deve essere richiesta dalla magistratura: il server su cui gira Facebook è a Menlo Park, e dunque l’Italia non può intervenire direttamente. Si può invece chiedere alla società americana, grazie agli accordi di collaborazione, la chiusura della pagina in tempi rapidi. Ma se ciò non è accompagnato dalla richiesta di sequestro preventivo, si perdono tutti i dati relativi alla pagina stessa e dunque risulterebbe impossibile poi risalire all’utente che l’ha realizzata.

 Grazie Elena per i tuoi suggerimenti. I nostri lettori te ne saranno certamente grati.

Fonte: La legge per tutti - Autore: Avv. Elena Bassoli

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