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mercoledì 20 ottobre 2010

Gli smartphone ci rendono più stupidi?


Studiamo e lavoriamo e, insieme, leggiamo mail, scarichiamo foto, chattiamo. Ma la multifunzionalità è un rischio: lo dicono i test
Un mattino di pochi giorni fa Fabrizio Capecelatro ha preso posto a lezione, cercando di concentrarsi. Ma con la coda dell'occhio non riusciva a fare a meno di osservare un nuovo compagno. Fabrizio, vent'anni, ha appena inizia to Scienze Politiche alla Statale di Milano e sta ancora incontrando molti personaggi mai visti prima. Questo in particolare aveva estratto un iPad da una busta, lo aveva sistemato su un treppiede e, facendo scivolare fuori una tastiera, aveva iniziato a scrivere mentre il professore parlava. Usava l'eBook come quaderno di scuola. Tutto qua? «No. Nel frattempo cercava anche delle foto su Facebook».
Fabrizio è un tipo più tranquillo, dice. Anche lui prende appunti direttamente su un computer portatile, ma niente navigazione simultanea sui social network. «Mai, in linea di massima». Questa disciplina dura soprattutto durante la prima ora (Storia contemporanea) mentre nella seconda, Diritto pubblico, «il professore a volte fa delle digressioni inutili». In quei momenti Fabrizio dà un'occhiata alla sua pagina di Facebook («solo per vedere se ci sono inviti»). Dunque niente email? «Be', quella la devo tenere aperta: lavoro, controllo se ci sono messaggi dall'ufficio». Peraltro il cellulare in aula va silenziato, dunque se Fabrizio si limita a scambiare sms è «solo per fissare appuntamenti a pranzo». Per il resto nient'altro: a lezione rimbalza fra non più di tre flussi di comunicazione diversi, mentre segue diritto pubblico e prende appunti.Gli esperti la chiamano multifunzionalità e nessuno sa bene che effetto faccia al nostro cervello. Un'amica di Fabrizio, Francesca Tosarini, anche lei di vent'anni, studia psicologia al San Raffaele e inizia ad avere dei dubbi. Vede compagni che aggiungono al loro menu di attività simultanee anche YouTube, blog, videogiochi e servizi di chat o instant messaging come Skype o altri. Studiare su un libro, per chi è abituato così, può diventare delicato. «Io personalmente mi trovo bene - dice Francesca -. Ma per molti avere tante possibilità distrae dal perseguirne bene una sola: chi si abitua ad avere un'attenzione ampia, poi fatica ad averne una selettiva».
Secondo uno studio di Microsoft, nove ragazzi europei su dieci,
fra i 16 e i 24 anni, tendono a guardare la tivù e navigare su Internet allo stesso tempo. Fra i più maturi succede molto meno, ma Fabrizio e Francesca hanno un messaggio anche per chi ha superato da un pezzo l'età degli studi. Siamo tutti convinti di poter gestire i mille spifferi di comunicazione che puntano su di noi, anzi spesso ne siamo divertiti e vi troviamo un sollievo dalla routine. Tutti però sospettiamo che quello stesso bombardamento inizi a sfibrare la mente di chi vive intorno a noi. Il romanziere Jonathan Franzen, almeno lui, non si è sopravvalutato: per scrivere «Freedom», il suo ultimo romanzo, ha riempito di colla l'accesso del cavo Internet del suo laptop.
Che sia per motivi sociali, affettivi o di lavoro, molti di noi invece non possono permettersi scelte così radicali, benché recenti ricerche indichino che la multifunzionalità cambia il modo in cui pensiamo. Le tecnologie evolvono probabilmente più in fretta di quanto i nostri cervelli riescano ad adattarsi. Mica saremo attratti da fasci di informazione che superano le nostre risorse mentali? Uno dei primi atti d'accusa è arrivato nel 2008 con un saggio di Nicholas Carr in The Atlantic (dal titolo «Google ci rende stupidi?»). Di recente però anche alcune ricerche sperimentali confermano i sospetti. A Stanford per esempio c'è un laboratorio dedicato alla comunicazione «fra gli umani e i media interattivi», che ha condotto un test su cento studenti divisi in due gruppi: i multifunzionali e i non-multifunzionali.
Nel primo esperimento, ai due gruppi sono stati mostrati
per due istanti consecutivi due rettangoli rossi circondati da due, quattro o sei rettangoli blu. A tutti è stato chiesto di ignorare le figure blu e indicare se le figure rosse avessero cambiato posizione. I non-multifunzionali hanno risposto correttamente, i multifunzionali sono naufragati. Non riuscivano a disinteressarsi di ciò che sapevano essere irrilevante. Il problema è che in test successivi si sono dimostrati meno bravi anche in attività alle quali in teoria uno smartphone dovrebbe addestrare: ricordare sequenze di lettere, o far passare l'attenzione da una cosa all'altra. Quando ai multifunzionali sono stati mostrate insieme cifre e lettere, non sono riusciti a ricordare se avessero visto vocali o consonanti, numeri pari o dispari (i non-multifunzionali invece sì). I neurologi francesi Sylvain Charron e Etienne Koechlin hanno rilevato con la risonanza magnetica che chi svolge due attività simultanee le distribuisce nei due lobi della corteccia frontale. Ma dalla terza in poi la performance crolla, perché lo spazio cerebrale sembra esaurito. E uno studio dell'Università della California, a San Francisco, mostra come l'uso eccessivo degli smartphone privi la mente delle micro-fasi di riposo necessarie alla memoria e alla creatività.
«Chi fa molto multitasking tende a distrarsi, la sola cosa che sa fare meglio è guidare mentre parla al telefono» nota Eyal Ophir, il ricercatore che nel 2009 ha guidato i test di Stanford (ora lavora a RockMelt, una start up che sviluppa un browser). Pietro Scott Jovane di Microsoft Italia, non concorda: «Se davvero fosse così, i risultati scolastici dei giovani d'oggi dovrebbero essere peggiori che nelle generazioni precedenti. E non mi risulta».
Ma più che una verità scomoda, la trappola del multitasking per i colossi dell'elettronica sembra il prossimo business: vincerà chi propone il gadget che seleziona meglio le funzioni desiderate volta per volta. Nel frattempo anche Caleigh Gray di Dallas ha qualcosa da dire: ha due anni e mezzo e soffre di una paralisi cerebrale che non le permette di dire neanche un sì o un no. Ma, secondo il Wall Street Journal, ora che ha un iPad per la prima volta in vita sua riesce finalmente a comunicare.

Fonte: Il Corriere della Sera - Autore: Federico Fubini

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