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lunedì 13 settembre 2010

L'incerto confine tra dovere di tutela e diritto alla riservatezza


Fin dove possono arrivare padri e madri per proteggere i minori? Rispondono Garante e Polizia postale

Di madri tanto apprensive, o invadenti a seconda dei punti di vista, come Denise New, ancora non se ne vedono all'orizzonte. Magari da noi riescono, con sentimento e italica furbizia, ad aggirare le barriere, virtuali e non, innalzate dai figli per tenerle fuori dai propri domini nel regno di Facebook e dei social network. E così non corrono il rischio di finire in tribunale, come è accaduto a Denise, denunciata dal figlio 16enne Lane con l'accusa di averlo «molestato» con una serie di reati: intrusione informatica nel suo profilo Facebook, modifica della password e, per finire, diffamazione a mezzo Internet. Ora la vicenda giudiziaria, che ha come teatro Arkadelphia, città di diecimila anime nello stato dell'Arkansas, negli Stati Uniti, sembra la prima in cui si confrontano il diritto-dovere dei genitori ad esercitare la potestà nei confronti dei figli e a tutelarli, con il diritto alla privacy dei minori in materia di social network. Finora, nessun "Lane" si è rivolto invece ai nostri giudici rivendicando vere o presunte «scorrerie» di mamma o papà ai suoi danni. E neppure alla Polizia Postale, in prima linea nella lotta alla criminalità informatica.
«Non ci è mai successo che qualche ragazzo abbia protestato perché il genitore è stato eccessivamente invasivo - racconta Nunzia Ciardi, dirigente della Polizia -. Ci telefonano i genitori, invece. Chiedono cosa fare per essere tranquilli sulla navigazione del figlio, oppure come aiutare il ragazzo che vedono preoccupato o al quale arrivano messaggi strani». In linea generale, al figlio maggiorenne viene riconosciuta la tutela piena della privacy, mentre il minorenne è soggetto a una serie di limitazioni. Ma non basta. Il terreno giuridico è ancora inesplorato e la materia complessa: «Manca la consapevolezza, proprio da parte del sistema giuridico, non solo italiano, del fatto che ormai quella tra maggiorenne e minorenne è una distinzione rozza - spiega Franco Pizzetti, Garante per la privacy -. Una distinzione che non soddisfa tutta la gamma diversa di situazioni che si possono determinare soprattutto rispetto alla protezione dei dati». Quali valori entrano in conflitto, dunque? «Da una parte la personalità del ragazzo, il quale man mano che cresce, e anche prima di diventare maggiorenne, acquisisce un diritto a essere rispettato nella sua dignità e nella sua riservatezza - risponde il Garante -. Dall'altro, il dovere del genitore di trattare il figlio per ciò che egli è nei diversi stadi della vita, man mano che cresce. Non si può trattare il figlio come un bambino di due anni fino ai 17 anni e 11 mesi e poi come un uomo compiuto al giungere del diciottesimo anno. E anche relativamente all'approccio ai social network, il comportamento e la capacità dei ragazzi cambiano di anno in anno, fino ad arrivare alla piena responsabilità giuridica. E i comportamenti dei genitori dovrebbero adeguarsi a questi cambiamenti».
Ma, allora, quando scatta la responsabilità del genitore per mancata vigilanza sul figlio e trascuratezza dei suoi doveri genitoriali? «Su questo, i Garanti europei si sono affannati a dare indicazioni, suggerimenti, consigli - dice Pizzetti -. Ma dal punto di vista strettamente giuridico non possiamo introdurre innovazioni rispetto all'ordinamento esistente». I principi da rispettare, dunque? «Necessità, non eccedenza del dato raccolto nei confronto del figlio e pertinenza -. Detto in altri termini: era proprio necessario questo dato (cioè quella informazione, o per esempio quella foto, acquisita dal genitore, ndr) per svolgere quella determinata attività genitoriale? È pertinente, cioè è stato raccolto un dato che riguarda effettivamente l'attività genitoriale che bisogna svolgere? È non eccedente: non c'è stato un eccesso di raccolta dei dati, quando ne bastavano altri?». Per sbrogliare meglio la matassa, bisognerà forse attendere che anche in Italia un giudice sia chiamato a pronunciarsi su un «casus belli». Nel frattempo, non sembra sconveniente seguire il consiglio di Nunzia Ciardi: «Essere amici dei propri figli non è una cattiva idea, neppure su Facebook».


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