E' stato pubblicato sul sito del Garante per la Protezione dei dati personali http://www.garanteprivacy.it/il vademecum "La Privacy tra i banchi di scuola", un opuscolo in .pdf abbellito graficamente e dal linguaggio abbastanza chiaro e sintetico (non si tratta della solita circolare ministeriale, per capirci). Provate questo link, oppure cercatela sul sito governativo. Traccio giusto uno spunto, ma l'argomento della privacy a scuola meriterebbe ben più profonde e articolate riflessioni: a me sembra di imbattermi in un contraddizione, o per meglio dire un "doppio legame" di batesoniana memoria, nel modo in cui si allestisce complessivamente la comunicazione su queste tematiche. Mi ricorda quando il genitore urla "non bisogna picchiare gli altri" rifilando una sberla al figlio, oppure quando si attuano campagne sociali per la "purezza della razza padana" e le classi scolastiche sono invece tutte bianche e nere come le scacchiere e i pianoforti, come quando il bambino vede che si applicano due pesi e due misure, come quando i messaggi che giungono da varie fonti non fotografano bene la realtà e si comprende la distanza abissale che intercorre tra il mondo com'è, come lo vediamo, e come vorremmo che fosse, come lo raccontiamo. Perché l'opuscolo del Garante della Privacy per la scuola mi sembra piuttosto normativo, certo intriso di buon senso; le limitazioni alla pubblicazione di documenti scolastici, di momenti di vita sociale, di opere didattiche sono abbastanza stringenti. Mentre il mondo sta vivendo una metamorfosi dei propri valori etici, riguardo l'accettazione sociale dei comportamenti "esibizionistici" delle persone nei Luoghi digitali. Tra l'altro, la stessa morale puritana che mi porta a definire "esibizionistica" o impudica la narrazione di sé a cui siamo quotidianamente chiamati a giocare grazie all'esplosione di ambienti digitali personali o sociali (blog o socialnetwork), suona oggi anacronistica, decisamente non adeguata a giudicare. Fino a vent'anni fa giudicavo le persone incontrandole per strada, dai loro vestiti e dalla loro automobile, dallo stile dei gesti nell'atteggiarsi in pubblico, dalla profondità del loro ragionare in quei rari casi (solo migliaia) in cui alcune di queste persone riuscivano ad accedere a giornali, editoria, cinema, televisione, diventando scrittori o giornalisti o registi e quindi riuscivano a moltiplicare la risonanza del loro pensiero grazie ai supporti tradizionali che storicamente sostengono la cultura umana. Oggi in milioni diventiamo editori di noi stessi, ognuno di noi può allestire la propria vita pubblica negli ambienti digitali, pubblicando articoli e saggi e opere d'arte e barzellette sciocche. Con la stessa potenza mediatica una volta riservata a realtà imprenditoriali strutturate, oggi riusciamo a arredare gli spazi della conversazione pubblica, dando immagine di noi e costruendo nel tempo, come linea di facce o memoria degli atteggiamenti, la nostra identità digitale. Il mondo tutto di oggi ci chiama a mettere in scena noi stessi, a raccontarci, a scambiare opinioni e giudizi gli uni con altri, a partecipare alla conversazione, perché sotto c'è un'altra morale rispetto a quella puritana del nascondere tutto, e oggi la trasparenza, la condivisione delle conoscenze e l'agire collettivo sono molto più facili tecnicamente e apprezzati eticamente. Oggi sono abituato a, mi aspetto, voglio che l'Azienda o il Comune o la Scuola comunichino molto. Gli individui possono giocare con la loro identità, mettere in scena sé stessi sbagliando o innovando (e tutto concorre a ridefinire e modernizzare quei concetti e valori socialmenti accettati di "esibizione" di sé suddetti, oggi in rapido mutamento), la Scuola deve in quanto pubblica rendere trasparente sé stessa, deve permettermi di conoscerla, deve abitare la conversazione sociale contribuendo con il suo discorso di attore sociale istituzionale alla costruzione collettiva e collaborativa del senso e delle pratiche di una buona Cittadinanza. Perché la Scuola insegna la Cittadinanza, a fare e a essere cittadini, e lei stessa non può, pena una contraddizione nel suo stesso dire, rifiutarsi di partecipare alla vita sociale, consegnare e educare le giovani generazioni al "silenzio mediatico" quando quegli stessi ragazzi su Facebook o nelle loro pratiche comunitative quotidiane vivono una situazione ben diversa, e capiscono subito che come al solito la Scuola è inattendibile perché ancorata ai valori obsoleti di forme di socialità che non abitano più nei nostri tempi, una scuola scollata dalla realtà concreta (non puoi dilungarti sul Risorgimento e tralasciare la Guerra del Golfo e il Muro di Berlino, non puoi non raccontare cosa sono la televisione e il web e quello che abbiamo intorno, crisi e conomica e ambientale e culturale). Un ragazzino nell'adolescenza alza lo sguardo, si confronta con la socialità ampia dei gruppi e della collettività, e il messaggio contradditorio che gli arriva è quello di un mondo adulto che a voce parla di regole e proibizioni e censure e norme, mentre negli atteggiamenti e nei comportamenti, ovvero nel vivace calderone della socialità mediatica oggi moltiplicata e universalizzata dalle tecnologie connettive, ci sguazza contento, com'è giusto che sia secondo i nuovi valori sociali orientati alla visibilità pubblica del proprio abitare. Quindi, ben vengano i manuali governativi di privacy, quando la loro funzione storica è pur sempre indicare a negativo la devianza, quei comportamenti individuali e sociali che danneggiano la persona o gli altri: imparo cosa posso fare studiando cosa non posso fare. Ma il discorso complessivo della Scuola riguardo la privacy dovrebbe essere al contrario orientato a praticare l'espressione di sé, a progettare la propria postura comunicativa e quindi identitaria negli spazi pubblici della conversazione collettiva, e dal fare concreto con gli altri ricavare quella consapevolezza del proprio dire (consapevolezza della distinzione tra personale e pubblico, quindi privacy) da trasformare in posizione etica, per innervare la propria missione educativa.
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