Livorno, il caso di una ventiseienne riconosciuta colpevole dal tribunale “E’ diffamazione a mezzo stampa”
All’improvviso si è resa conto di detestarlo. Quell’uomo, che fino
al giorno prima era semplicemente il suo datore di lavoro, adesso
presumibilmente le pareva insulso, ingiusto, in qualche modo cattivo.
Così, Rossella Malanima – nome beffardamente evocativo –, ventiseienne
livornese, appena licenziata da un centro estetico cittadino, aveva
deciso di sfogarsi. Fosse stata negli Anni Novanta avrebbe potuto
invitare le amiche a casa per un tea delle cinque. Le avrebbe messe
attorno a un tavolo e avrebbe aperto i rubinetti della sua frustrazione.
Loro le avrebbero detto: “dai, non te la prendere”, poi l’avrebbero
invitata al cinema e la cosa sarebbe finita lì. In questo secondo decennio del duemila, le cose si fanno in un altro
modo. Più rapido, più largo, improvvisamente più pericoloso. Quale?
Rossella si è messa a sedere e ha aperto il computer. Si è collegata con
Facebook – la sua comunità no? I suoi affetti, non è quello che
dovrebbe essere? – e ha cominciato a raccontare a modo suo quello che
sentiva. Si è lasciata andare perché non le passava neanche per
l’anticamera del cervello che lo scivolo che scarica la nostra rabbia
dal mondo virtuale a quello reale, e nel suo caso a un’ aula di
tribunale, potesse essere così violentemente inclinato. In ogni caso per
restituire il proprio fastidio ha scelto queste selezionate e sentite
parole. “Quel centro estetico fa onco ai bai”, ”che in una impossibile
traduzione dal livornese significa all’incirca “non è igienicamente
consigliabile”. Un amico (un, indistinto, uno di quelli che navigano
l’imprendibile labirinto della rete) le ha chiesto: “ma non ci lavoravi
fino a ieri?”. “Sì, ma per fortuna non più”. Poi ha allargato l’analisi
al suo ex datore di lavoro: “è un albanese di m…”. Ah, che liberazione. Si è sentita più leggera finché, pochi giorni dopo, le hanno
consegnato la querela dell’albanese ai sensi dell’articolo 595 del
codice civile, quello che prevede la “diffamazione a mezzo stampa”. A
mezzo stampa? Lei è sbiancata e si è cercata un avvocato senza rendersi
conto che il suo caso rischiava di diventare il sasso che scatena la
valanga sugli internauti, quello che il caso Bosman fu per il pallone. In Tribunale ha scelto il rito abbreviato e si è risparmiata un po’
di grane, ma non la condanna. Mille euro di multa e tremila euro da
consegnare all’ex datore di lavoro.. La sua colpa? Nella sentenza emessa
il 31 dicembre dal giudice Antonio Pirato del Tribunale di Livorno (e
pubblicata dal quotidiano Il Tirreno) tra l’altro si legge: “E’ evidente
che gli utenti del social network sono consapevoli - e anzi in genere
tale effetto non è solo accettato ma è indubbiamente voluto - del fatto
che altre persone possano prendere visione delle informazioni scambiate
in rete. Infatti, è nota agli utenti di “Facebook” l’eventualità che
altri possano in qualche modo individuare e riconoscere le tracce e le
informazioni lasciate in un determinato momento sul sito, anche a
prescindere dal loro consenso: trattasi dell’attività cosiddetta di
“tagging”, che consente, ad esempio, di copiare messaggi e foto
pubblicati in bacheca e nel profilo altrui oppure e-mail e conversazioni
in “chat”, che di fatto sottrae questo materiale dalla disponibilità
dell’autore e sopravvive alla stessa sua eventuale cancellazione dal
social network.
L’uso di espressioni di valenza denigratoria e lesive della
reputazione dei profilo professionale della parte Civile integra
sicuramente gli estremi della diffamazione alla luce del detto carattere
pubblico del contesto in cui quelle espressioni sono manifestate, della
sua conoscenza da parte di più persone e della possibile sua
incontrollata diffusione tra i partecipanti alla rete del social
network. Lo specifico episodio in trattazione va più esattamente
qualificato come delitto di diffamazione aggravato dall’avere arrecato
l’ offesa con un mezzo di pubblicità (fattispecie considerata al comma
terzo dell’articolo 595 del codice civile ed equiparata, sotto il
profilo sanzionatorio, alla diffamazione commessa con il mezzo della
stampa)”. Facebook come un quotidiano. Una tv. Un media tradizionale.
Stesse regole, stesse responsabilità, stessi rischi. Rossella Malanima,
pagando, deve avere sentito un male profondo pulsarle lentamente nel
corpo e forse ha realizzato, anche questa volta all’improvviso, che la
vendetta rischia sempre di trasformarsi in una pigra forma di
sofferenza. E che adesso, ufficialmente, esercitarla in rete è come
gridare ai giudici: venitemi a prendere.
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