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mercoledì 1 settembre 2010

Quelle scarpe mi inseguono, se la pubblicità fa stalking



La storia della blogger canadese Julie Matlin, perseguitato dal messaggio di un paio di calzature, e i pregi e difetti del cosiddetto "remarketing". Per salvarsi basta un clic

E' BASTATO cliccare su un paio di scarpe in mostra su un blasonato sito degli States: quella che sembrava una semplice sessione di e-shopping per Julie Matlin, "mommy blogger" canadese, si è trasformata in un'avventura ai limiti dello stalking virtuale. Sì, perché quel paio di scarpe (che la Matlin alla fine ha deciso di non comprare), ha continuato a perseguitare la blogger in tutti i siti internet che visitava, riproponendosi con la stessa insistenza attraverso le pubblicità nelle pagine più disparate, fossero essi siti di informazione o blog per fanatici tecnologici. Un rapido consulto del meteo? Ed ecco quelle scarpe. Uno sguardo alle foto postate da un amico su Twitpic? Ancora loro. Stessa storia su YouTube o Facebook o MySpace. Partendo da questo aneddoto, raccontato dalla Matlin 1 sul suo blog, il New York Times 2 analizza un fenomeno sempre più diffuso e che genera preoccupazione su molti navigatori del web, anche in Italia. Pure nel nostro paese capita infatti che, una volta cliccato su un annuncio o su un banner, si finisca per visualizzarlo di continuo, anche se il messaggio che veicola non è di nostro interesse. Il nome tecnico di questo fenomeno è remarketing (o retargeting). In poche parole si tratta di una campagna pubblicitaria via web che punta direttamente a chi ha già interagito con un sito o con un prodotto, invitandolo a tornare di nuovo. Sul paino teorico la convenienza è evidente: se un utente sta cercando un hotel per le vacanze è probabile che visiti decine di siti diversi prima di scegliere la meta. Meglio quindi "ricordargli" che da quel sito inserzionista è già passato e che magari può valere la pena tornare.Queste tipo di campagne non è una novità, ma ha subito un notevole incremento negli ultimi tempi in seguito alla discesa nel settore anche dei big della pubblicità. Un caso su tutti è quello di Google che ha lanciato il remarketing per i suoi Adsense lo scorso marzo. Curiosamente la pagina del gigante di Mountain View che spiega di che si tratta cita proprio l'esempio di un paio di scarpe. Dove questo tipo di operazioni crea qualche perplessità è sul sempre delicato tasto della privacy: una pubblicità che ricorda quali scarpe hai guardato qualche giorno fa può creare fastidio, ma problemi più gravi possono sorgere quando ad essere visualizzati sono farmaci dimagranti, medicinali o altri prodotti sensibili. Basta dare un'occhiata ai commenti all'articolo del New York Times per rendersi conto di quanto questo genere di tracciamento degli interessi non sia troppo gradito dagli utenti, che in alcuni casi promettono il boicottaggio di chi usa questi sistemi di pubblicità. Il dibattito sull'efficacia di questo mezzo è aperto anche tra gli addetti ai lavori, in molti casi preoccupati di dare ai propri potenziali clienti l'idea di una persecuzione o di un interesse fin troppo invasivo.In realtà il remarketing non è diverso dalle altre pubblicità mostrate online e può essere "addomesticato" usando gli stessi accorgimenti. Il tracciamento dell'utente si basa sui celebri cookies, dei file di testo che vengono salvati dal browser (il programma che si utilizza per navigare) e conservano memoria dei siti visitati, i login e le password. Questo tipo di tracciamento si basa solo sul browser e non è in alcun modo associato al nome o alle generalità della persona: basta cancellare i cookies (operazione eseguibile dalle opzioni dei browser o con programmi appositi) per eliminare ogni effetto del remarketing. Insomma: con un click le scarpe hanno cominciato lo stalking e con un click lo cesseranno.

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