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giovedì 25 giugno 2009

L'indirizzo IP non permette di condannare un utente per P2P. Lo decide la sentenza di un tribunale di Roma

Per gentile concessione di Guido Scorza, esperto professionista di Internet e relative argomenti giuridici di cui vi invitiamo a visitare i siti http://www.politicheinnovazione.eu/ e il suo sito personale http://www.guidoscorza.it/.
Il PM e GIP del Tribunale di Roma, in una sentenza per condivisione illegale di contenuti protetti, hanno ritenuto che la sola titolarità della linea telefonica dalla quale era stata posta in essere la condotta delittuosa non fosse sufficiente a fondare la responsabilità dell'imputato.
Al riguardo, scrive il PM nella propria richiesta di archiviazione, "...nel caso di specie la responsabilità di XXX (l'imputato, ndr) si radicherebbe per il solo fatto di essere costei la proprietaria della linea telefonica a servizio del computer, mentre non vi è prova certa di chi ne abbia fatto uso, specie con le condotte di download che si vorrebbero criminalizzare; onde non appare possibile contestare in fatto all'indagata il reato per cui si procede che potrebbe essere attribuibile ad altri soggetti che facciano uso o abbiano fatto utilizzo anche saltuario del computer sequestrato (quello presumibilmente usato per la condivisione del materiale protetto,ndr)".
Egualmente, nel provvedimento di archiviazione, il Giudice per le indagini preliminari ribadisce che "...non vi è prova certa che l'intestatario della linea telefonica abbinata al PC da cui è partito l'input sia di fatto colui che ha posto in essere la condotta".
Secondo il Tribunale di Roma non basta dunque ricondurre una certa condotta telematica ad un indirizzo IP e, quindi, ad un'utenza telefonica per imputare poi al titolare di tale utenza la responsabilit? della condotta.
L'IP non fa il pirata, verrebbe da dire, proprio come l'abito non fa il monaco!
È ovvio che si tratta solo di una decisione di merito che va ad inserirsi in un contesto - del quale sarebbe errato non tenere e non dar conto - in cui spesso i giudici italiani, anche proprio in materia di violazione dei diritti di proprietà intellettuale, sono pervenuti a conclusioni diverse ma la decisione è, comunque, sintomatica di una situazione di incertezza nella quale principi fondamentali del diritto quale quello della personalità della responsabilità penale e limiti tecnologici si scontrano e confrontano senza che appaia agevole individuare ex ante vincitori e vinti. Si tratta, d'altro canto, di una questione assai simile a quella che è stata, proprio di recente, affrontata e risolta - in termini, peraltro, analoghi a quanto deciso dal Tribunale di Roma - dal Consiglio Costituzionale francese in sede di esame dell'ormai famoso progetto di legge Hadopi attraverso il quale - come è noto - il "duetto" Olivennes-Sarkozy ed il coro dell'industria francese dell'audiovisivo avrebbero voluto sanzionare con la disconnessione ex lege il titolare delle risorse si connettività utilizzate per la violazione - in quel caso neppure accertata - dei diritti di proprietà intellettuale. Illuminanti, al riguardo, risultano i considerando nn. 17 e 18 di tale decisione. Al primo i Giudici costituzionali richiamano l'art. 9 della dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino ed il principio della presunzione di innocenza in esso sancito mentre al secondo dichiarano espressamente la contrarietà a detto principio delle previsioni contenute nel progetto di legge Hadopi alla stregua delle quali sarebbe toccato al titolare dell'abbonamento ad internet provare - offrendo peraltro un ventaglio di prove predeterminato dalla legge - la propria assenza di responsabilità. In tale contesto, allo stato, non può ritenersi pacifico il principio secondo il quale l'indirizzo IP costituirebbe uno strumento sufficiente - in assenza di altri elementi di prova - ad imputare una determinata condotta telematica al suo assegnatario, facendo poi ricadere su quest'ultimo tutte le responsabilità connesse a detta condotta. Se ciò è vero, tuttavia, risulta evidente che il legislatore, prima di lasciarsi tirare per la giacchetta a dettare nuove e più stringenti misure di enforcement dei diritti di proprietà intellettuale così come in relazione ad ogni altro genere di condotta illecita che si consumi nello spazio telematico, dovrebbe, forse, preoccuparsi di affrontare in modo serio, equilibrato e rispettoso dei principi fondamentali del diritto - in particolare la presunzione di innocenza e il diritto alla privacy ed alla riservatezza - il problema dell'imputazione delle condotte lecite ed illecite poste in essere nello spazio telematico.
Solo se e quando si disporrà di strumenti informatico-giuridici idonei a tale scopo potranno riprendersi le cacce a streghe e pirati che da troppo tempo esacerbano i rapporti tra Rete ed anti-Rete producendo come unico effetto quello di condannare il Paese ad una situazione di grave arretratezza dal punto di vista della diffusione e dell'utilizzo delle tecnologie informatiche e delle risorse di connettività. Che la soluzione sia rappresentata dall'anonimato protetto di cui spesso si è già parlato - e non già dall'anacronistica ed inammissibile idea del divieto assoluto di anonimato oggetto dell'ormai famigerato disegno di legge Carlucci - o dal ricorso ad altri strumenti di imputazione delle condotte poco importa, ciò che conta è che la Rete mostri il suo lato più responsabile: pronta a farsi riconoscere laddove sia necessario in cambio, tuttavia, di rispetto per i diritti e le libertà fondamentali. Il principio sancito nella decisione del Tribunale di Roma così come, d'altro canto, quello stabilito nella Sentenza del Consiglio costituzionale francese, peraltro, accrescono i dubbi già importanti e diffusi circa la legittimità di certe cattive abitudini che spesso hanno condotto i paladini dell'industria dei contenuti ad effettuare raccolte di massa di indirizzi IP con l'alibi che si trattasse delle "targhe dei pirati".

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